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Sottomissione

12,30

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa, ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

5 maggio 2016

ISBN-13

978-8845298462

Lingua

Italiano

Formato

Copertina flessibile

COD: 6321 Categoria: Tag: Product ID: 21188

Descrizione


1.

Un brusio lo riportò a Saint-Sulpice; il coro si allontanava, la chiesa stava per chiudere. Avrei potuto tentare di pregare, si disse; sarebbe stato meglio che fantasticare nel vuoto, seduto su una sedia; ma pregare? Non ne ho il desiderio; sono ossessionato dal cattolicesimo, inebriato dalla sua atmosfera d’incenso e di cera, gli giro intorno, commosso fino alle lacrime dalle sue preghiere, spremuto fino al midollo dai suoi salmi e dai suoi inni. Sono affatto disgustato della mia vita, affatto stanco di me, ma da questo a condurre un’esistenza diversa ce ne passa! E poi… e poi… in queste cappelle mi turbo, ridivento incommosso e arido appena ne esco. In fondo, si disse alzandosi e seguendo le poche persone che, sospinte dallo svizzero, si dirigevano verso una porta sul fondo, ho il cuore indurito e affumicato dai bagordi, non sono buono a niente.

J.-K. HUYSMANS, En route

 

Per tutti gli anni della mia triste giovinezza, Huysmans è stato per me un compagno, un amico fedele; non ho mai dubitato di lui, non sono mai stato tentato di abbandonarlo o di orientarmi verso un altro soggetto; poi, in un pomeriggio di giugno del 2007, dopo aver aspettato molto, dopo aver tergiversato a lungo, anche un po’ più di quanto fosse accettabile, discussi davanti alla commissione dell’università Parigi IV-Sorbona la mia tesi di dottorato: Joris-Karl Huysmans, o l’uscita dal tunnel. Già l’indomani mattina (o forse la sera stessa, non saprei, la sera della mia tesi fu solitaria, e molto etilica), capii che una parte della mia vita si era appena conclusa, e che probabilmente era quella migliore.

È sempre così, nelle nostre società ancora occidentali e socialdemocratiche, per tutti coloro che completano i loro studi, ma i più non se ne rendono conto, o non lo fanno immediatamente, ipnotizzati come sono dal desiderio di denaro – o forse di consumismo, nel caso dei più primitivi, quelli che hanno sviluppato una più violenta dipendenza da certi prodotti (sono una minoranza, mentre la maggioranza, più riflessiva e più posata, matura una fascinazione semplice per il denaro, questo “Proteo instancabile”) –, ipnotizzati ancor di più dal desiderio di mettersi alla prova, di ritagliarsi una posizione sociale invidiabile in un mondo che immaginano e si augurano competitivo, galvanizzati come sono dall’adorazione di icone mutevoli: sportivi, creatori di moda o di portali Internet, attori, modelle.

Per varie ragioni psicologiche che non ho la competenza né il desiderio di analizzare, io mi discostavo sensibilmente da questo schema. Il 1° aprile 1866, all’epoca diciottenne, Joris-Karl Huysmans iniziò la sua carriera come impiegato di sesto livello al ministero dell’interno e dei culti. Nel 1874 pubblicò a proprie spese Le drageoir à épices, che fu oggetto di poche recensioni a parte un articolo, estremamente benevolo, di Théodore de Banville. Come si può vedere, il suo esordio nell’esistenza non ebbe nulla di clamoroso.

La sua vita amministrativa fece il proprio corso, così come la sua vita in generale. Il 3 settembre 1893, gli fu assegnata la Legion d’onore per meriti conseguiti nell’ambito della funzione pubblica. Nel 1898 andò in pensione, avendo maturato – al netto dei periodi di congedo per motivi personali – i previsti trent’anni di servizio. Nel frattempo era riuscito a scrivere vari libri che, a più di un secolo di distanza, me lo avevano fatto considerare come un amico. Molte cose, forse troppe, sono state scritte sulla letteratura (e, in quanto universitario specializzato in questo campo, mi sento più di altri autorizzato a parlarne). Eppure la specificità della letteratura, arte maggiore di un Occidente che si va consumando sotto i nostri occhi, non è molto difficile da definire. Al pari della letteratura, la musica può determinare uno sconvolgimento, un ribaltamento emotivo, una tristezza o un’estasi assolute; al pari della letteratura, la pittura può generare uno stupore, uno sguardo nuovo posato sul mondo.

Ma solo la letteratura può dare la sensazione di contatto con un’altra mente umana, con l’integralità di tale mente, le sue debolezze e le sue grandezze, i suoi limiti, le sue meschinità, le sue idee fisse, le sue convinzioni; con tutto ciò che la turba, la interessa, la eccita o le ripugna. Solo la letteratura può permettere di entrare in contatto con la mente di un morto, in modo più diretto, più completo e più profondo di quanto potrebbe fare persino la conversazione con un amico; per quanto profonda e solida possa essere un’amicizia, in una conversazione non ci si abbandona mai così completamente come davanti a una pagina bianca, rivolgendosi a un destinatario sconosciuto.

Certo, è ovvio che quando si tratta di letteratura la bellezza dello stile e la musicalità delle frasi hanno la loro importanza; la profondità di riflessione dell’autore e l’originalità dei suoi pensieri non sono da disprezzare; ma un autore è innanzitutto un essere umano, presente nei suoi libri, e in definitiva il fatto che scriva molto bene o molto male conta poco, l’essenziale è che scriva e che sia, effettivamente, presente nei suoi libri. (È strano che una condizione così semplice, all’apparenza così poco discriminante, in realtà lo sia così tanto, e che questo fatto evidente e facilmente riscontrabile sia stato così poco approfondito dai filosofi di diversi orientamenti; posto che in sostanza gli esseri umani possiedono, indipendentemente dalla qualità, un’identica quantità di essere, essi sono tutti, in sostanza, presenti in maniera pressoché equivalente; eppure non è questa l’impressione che danno a qualche secolo di distanza, e troppo spesso vediamo affiorare, da pagine che sentiamo dettate più dallo spirito del tempo che da un’individualità propria, un essere incerto, sempre più fantomatico e anonimo.) Pertanto, un libro che amiamo è soprattutto un libro di cui amiamo l’autore, che abbiamo voglia di ritrovare, con il quale abbiamo voglia di passare le nostre giornate. E durante quei sette anni che avevo dedicato alla redazione della mia tesi, avevo vissuto in compagnia di Huysmans, con la sua presenza quasi costante. Nato in Rue Suger, vissuto in Rue de Sèvres e in Rue Monsieur, Huysmans è morto in Rue Saint-Placide per poi essere sepolto nel cimitero di Montparnasse.

La sua vita, insomma, si è svolta quasi interamente entro i confini del VI Arrondissement di Parigi – così come la sua vita professionale, per più di trent’anni, si è svolta negli uffici del ministero dell’interno e dei culti. Anch’io abitavo nel VI Arrondissement all’epoca dell’università, in una stanza umida, fredda e, soprattutto, molto buia – le finestre davano su un cortile minuscolo, quasi un pozzo, bisognava accendere le luci già la mattina. Ero povero, e se avessi dovuto rispondere a uno di quei sondaggi che periodicamente tentano di “sentire il polso dei giovani”, avrei sicuramente definito le mie condizioni di vita come “piuttosto difficili”.

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