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Stigma

Author: Erin Doom

16,90

La protagonista di questa storia non crede più nei miracoli. Troppe volte la vita l’ha masticata e risputata, illudendola che un futuro scintillante fosse in serbo per lei. Da sola e senza mezzi, Mireya decide di trasferirsi a Philadelphia in cerca di fortuna. Con sé ha soltanto una vecchia valigia, intorno l’inverno gelido di una città sconosciuta. Il suo personale miracolo sembra compiersi quando si imbatte in un’insegna al neon che si staglia nel buio della notte. Eccentrico e sfarzoso, il club Milagro’s è un luogo capace di affascinare chiunque ne varchi la soglia, Mireya compresa. Con l’ostinazione di chi non ha niente da perdere, la ragazza riesce a farsi assumere come barista. Il Milagro’s, però, è più di un locale esclusivo. Dietro le sue porte chiuse, oltre i lustrini e le luci di scena, si intrecciano destini e sussurrano segreti. I più oscuri si condensano tutti nel viso aspro e incantevole di Andras, il capo della sicurezza. Fra Mireya e Andras è odio a prima vista. Entrambi portano sulla pelle gli stessi segni, hanno addosso il marchio di chi ha dovuto imparare a lottare per sopravvivere. Eppure i due continuano a imbattersi l’uno nell’altra, come attirati da una forza misteriosa che non sanno né possono contrastare, stretti da un filo dorato più forte di un destino.

Informazioni aggiuntive

Editore

ISBN

979-1259571953

Data di pubblicazione

16 maggio 2023

Lingua

Italiano

Formato

Copertina flessibile

COD: 9152 Categoria: Tag: , Product ID: 22007

Descrizione

1

Milagro’s

 

Vincitori e vinti hanno in comune
una grande vittoria: l’aver tentato.

 

Era scesa la notte.

Intorno a me tutto pulsava come un cuore addormentato, insegne e lucine colorate si riflettevano su palazzi talmente alti da far venire le vertigini.

Camminavo da ore. Stretta nella mia sciarpa, girovagavo per le strade della città con solo una vecchia valigia e un cappotto che non poteva rivaleggiare con il gelo di quel periodo.

Sentivo le dita intorpidite. L’aria puzzava di fogna e asfalto bagnato, l’odore pungente del Delaware mi impregnava le narici. Faceva un freddo del diavolo e, come se non bastasse, avevo il brutto presentimento di essermi persa.

«Diamine…» sussurrai inquieta, in una nuvoletta di fiato.

La città non era stata clemente con me. Ero arrivata soltanto quella mattina, eppure erano bastate poche ore per ritrovarmi inghiottita da grattacieli immensi e guglie metalliche, che mi avevano masticata e risputata tra scie di passanti e strade infestate dal traffico. Philadelphia era una strana bestia dalle arterie intasate, l’indole aguzza che nei film finiva sempre stemperata da uno scorcio romantico della Liberty Bell, ma del famoso brotherly love che tanto si decantava nei dépliant avevo trovato ben poco.

Strinsi i denti e ancora una volta tirai fuori il foglio di giornale tutto stropicciato.

Cercai di lisciarlo con le dita intirizzite. Scorsi di nuovo gli annunci, depennando mentalmente i posti che mi avevano già rifiutata. Non era possibile che li avessi già vagliati tutti… Li rilessi più volte, esaminai ogni riga cercando qualcosa, qualsiasi cosa che non avessi già tentato, ma il problema restava sempre lo stesso.

Trovare uno straccio di lavoro non mi era mai sembrato più difficile. O ero troppo giovane, o troppo impreparata, o senza una garanzia certa di continuare a lavorare che fosse all’altezza dei loro standard. Tutti volevano delle referenze, anche per le mansioni meno qualificate; nessuno sembrava disposto ad assumere una sbandata come me, men che meno per compiti che esigevano un minimo di esperienza.

Chiedevo solo un’opportunità.

Una…

Ricacciai il foglio in tasca e ripresi a camminare, trattenendo la frustrazione.

Costeggiai Market Street, sfilando tra le decorazioni natalizie e le luminarie che addobbavano la strada. Era il primo giorno di dicembre, nell’aria si respiravano sogni, impazienza e aspettative, i negozi sembravano usciti da riviste patinate e gli animi resi isterici dall’avvicinarsi delle feste. Soltanto io, infreddolita e senza meta, sembravo un puntino nero in un universo di colori sgargianti.

Continuai a muovermi tra le vie, sferzata dall’umidità stantia e dal gelo che mi mordicchiava le ossa. In certi tratti l’odore del fiume si mischiava a quello pungente dei bassifondi, creando ristagni che il gelo intrappolava dentro i polmoni.

Irrigidita, passai accanto a un paio di serrande abbassate che offrivano riparo ad alcuni senzatetto, e loro mi fischiarono dietro. Serrai le dita attorno al manico della valigia quando uno si alzò barcollando, il viso pesto e i denti marci, e fece per slacciarsi i pantaloni, sbrodolandomi un invito osceno. Abbassai la testa e affrettai il passo, svoltando al primo incrocio.

Una volta in fondo al vicolo, mi guardai alle spalle per accertarmi che non mi avessero seguita. Nonostante fossi da sola, non ero abituata alle insidie di una metropoli così sregolata e caotica, con le sue lusinghe e i suoi pericoli; in fin dei conti venivo da una piccola cittadina nella contea di Chester, uno sputo di centro abitato nei dintorni di Philadelphia. Malgrado lo spirito che stavo dimostrando, quella era davvero la prima volta che mi ritrovavo a fronteggiare una città tanto immensa.

Sospirai e mi toccai nervosamente la sciarpa, pervasa da un’urgenza frustrante.

E adesso?

Che accidenti avrei fatto?

Mi mordicchiai le labbra carnose cercando di non pensare al freddo che si insinuava sempre più a fondo, facendomi sentire ancora più persa, sola e sconfitta. Avrei seriamente voluto lanciare la valigia o tirare un pugno a un lampione, perché la disperazione mi spingeva in gola con un vago, opprimente bisogno di urlare e quello non sembrava davvero un buon momento per dare di matto. Trattenni l’istinto per le redini e cercai di ragionare, sentendo cuore e cervello frizzare come ingranaggi impazziti.

Mi serviva un piano. Avevo bisogno di un progetto, mi serviva un… un…

D’un tratto un motore accelerò dolcemente. Un taxi fermo in fondo al vicolo partì, rivelando volute di fumo che risalivano dalle grate al suolo e il contorno rosso di un idrante rischiarato da una strana fosforescenza. Ai miei occhi apparve un’insegna luminosa che si rifletteva come argento liquido sull’asfalto scivoloso del marciapiede.

Fu istantaneo. Inaspettato.

Fu come sentire qualcosa dentro agganciarsi con forza improvvisa a quell’unica, brillante parola: ‘Milagro’s’.

…miracolo.

Fissai a lungo la scritta, raggelata e abbagliata dal neon azzurro che splendeva come un faro nel nero verniciato della notte. I caratteri eleganti mi incantarono, la luminescenza mi catturò come una barca alla deriva.

Non avevo mai creduto nella sorte. Non avevo mai avuto nemmeno fede, ma per un assurdo istante quel bagliore sembrò salvarmi, bagnarmi di una luce mistica, celestiale, che rischiarò il buio.

Mi avvicinai cauta, quasi aspettandomi di vederlo sparire tra le volute di vapore. Raggiunsi quella che doveva essere l’entrata: un piccolo cunicolo che scendeva verso il basso, sprofondando nell’ignoto. Sembrava l’uscita di emergenza della vecchia cappelleria che occupava quel piccolo ritaglio del marciapiede, con la vetrina spenta e la scritta in stile art déco che doveva aver visto tempi migliori. L’insegna al neon era affissa in orizzontale sulla facciata, proprio sopra quel pertugio, come se fosse stata posizionata in un secondo momento. Mi sporsi per vedere meglio, magari scorgere qualche ulteriore dettaglio, ma le luci dei lampioni non riuscivano a infilarsi là sotto.

Che cos’era?

Un pub?

Una discoteca, forse?

L’aria gelida mi arrossò le guance mentre scrutavo quel rettangolo nero e un po’ inquietante, esitando.

D’altronde non era un’allucinazione, quell’insegna recitava davvero ‘Al Miracolo’. Non era una coincidenza, non era nemmeno una fatalità – era qualcosa di più, qualcosa che avevo cercato per troppo tempo.

Chiusi gli occhi e raccolsi tutta la mia determinazione, trattenendola nel petto. Poi, sotto la luminescenza della scritta, mi feci coraggio e poggiai un piede sul primo gradino. Mi avventurai nell’oscurità e i rumori della città svanirono pian piano alle mie spalle, sostituiti da una musica profonda e sensuale.

Il corridoio era strettissimo. Un angolo della valigia sfregò contro il muro, perciò la posizionai di lato e continuai ad avanzare; procedetti piano fin quando le pareti non si allargarono e la luce non tornò a filtrarmi tra le ciglia attraverso piccoli faretti sul soffitto.

Ora i muri erano ben visibili. Finemente dipinti di un intenso blu petrolio, invitavano l’ospite a proseguire in una successione di manifesti in bianco e nero, su cui svettavano ritagli di fotografie e titoli di show dai brillanti caratteri dorati.

Intravidi una piccola scrivania sulla destra, dietro la quale una ragazza con i capelli castani raccolti gustava con indolenza un lecca-lecca. Aveva un lato della testa rasata e una fila di orecchini che le tempestava l’orecchio dal lobo fino alla punta. Quando mi avvicinai lei non alzò nemmeno il viso.

«Benvenuta al Milagro’s. Sono trenta dollari».

«Io…» esitai, titubante, guardandomi intorno. La musica adesso era più forte, eppure ugualmente morbida e seducente. Udivo il rumore di voci, il tintinnio del vetro dei bicchieri: aveva tutta l’aria di essere un posto raffinato ed esclusivo. Scrollai di dosso l’incertezza e mi schiarii la voce, tentando di darmi un tono. «Cerco un impiego».

La ragazza sollevò gli occhi. Ruotò la sedia girevole, rivolgendomi la sua completa attenzione, e mi squadrò per intero, dal viso pallido ai lunghi capelli neri che si perdevano nella sciarpa.

«Dove ti sei esibita?»

«Esibita?»

Lei alzò un sopracciglio. Mi bastò un’occhiata ai manifesti per intuire la direzione del suo discorso.

«Oh, no, non sono una ballerina».

«Spiacente, non siamo alla ricerca di altre cameriere» mi liquidò, invitando le ultime persone arrivate a farsi avanti.

Ehi, un momento!

Scoccai un’occhiata ai due uomini in giacca dietro di me e affilai lo sguardo, decisa a non schiodarmi da lì. Appoggiai con determinazione i polpastrelli sulla superficie specchiata della scrivania e tornai a impormi alla sua attenzione.

«Non c’è qualcuno con cui posso parlare?»

«Puoi compilare questo modulo» replicò svogliata, passandomi un foglio. «Se dovessimo essere interessati ti contatteremo».

Sì certo, masticai, cercando di trattenere l’irritazione per l’ennesimo rifiuto. I due uomini alle mie spalle mossero un passo ma io li fulminai con lo sguardo, pronta a giocarmi tutte le carte che avevo.

«Ho bisogno di un lavoro» buttai fuori senza mezzi termini.

«Me ne rendo conto».

«Voglio solo fare un colloquio».

«Ah-ah…»

«Se mi fai entrare, posso…»

«Te l’ho già detto. Al momento non assumiamo. Ma se proprio ci tieni puoi lasciare un recapito, ti chiameremo non appena… Ehi!»

Per poco non caddi. Un tizio si fece largo tra la gente, ci superò come una furia e imboccò l’entrata.

«Tu!» latrò la ragazza, sporgendosi sulla scrivania. «Che diavolo fai? Devi pagare!»

Le persone alle mie spalle si mescolarono nel corridoio affollato, creando un istante di confusione. Lei ruotò verso il telefono per chiamare la sicurezza e io approfittai di quel delirio momentaneo per compiere un azzardo: mi mossi trafelata e quasi inciampando nella valigia sgusciai oltre.

Mi infilai dentro, superando due grandi porte scure, e davanti a me si spalancò uno spettacolo stupefacente.

Era una sala a semicerchio. Un palco con tende damascate in celeste si apriva sulla sinistra, dominando l’ambiente gremito di gente. Assomigliava quasi a un teatro, ma invece che file di sedili imbottiti, qua e là erano disposti tavolini intarsiati e poltroncine in velluto nero. Dall’altra parte della sala, su un piano leggermente sopraelevato, si apriva lo spazio bar, con un lucido bancone scuro dietro cui si innalzava una parete stipata di bottiglie colme di liquidi multicolore; diversi tavolini alti con sgabelli scintillanti completavano quella zona. Più su, lungo tutto il perimetro della sala, serpeggiava un ulteriore piano con divanetti occupati da figure eleganti e secchielli di champagne, uno spazio più intimo e riservato da cui gli ospiti potevano comunque godere di un’ottima vista.

Sollevai il viso, ammirata. Al centro del soffitto, frutto di una squisita ricerca estetica, un antico lampadario d’ottone e cristallo creava riflessi di luce smerigliata che rendevano l’aria quasi magica.

Che posto era?

Non avrei saputo come definirlo: l’atmosfera elegante e riservata, quasi vintage, l’illuminazione tenue e il gruppo jazz che in quel momento suonava languidamente sul palco suggerivano che si trattasse di un locale di musica dal vivo.

«Scusa…» Cercai di fermare una delle cameriere che si destreggiavano indaffarate tra i tavoli. «Un momento, ehi!»

Riuscii a farmi notare. Una biondina si voltò, spaesata, guardandomi con gli occhi di chi aveva davvero tanta fretta. «Sì?»

«Con chi posso fare un colloquio?»

«Come?»

«Con chi posso…»

Sussultò, quando si accorse che un elegante uomo dai tratti asiatici la stava chiamando, e prima che potessi terminare si defilò diretta al suo tavolo. Mi sbracciai e ne fermai un’altra, questa volta una brunetta dalla pelle color cioccolato.

Cerco un lavoro. Con chi posso parlare?»

«Un lavoro?» ripeté lei, tentando di sovrastare le voci, la musica e tutto il morbido caos che ci circondava. Nonostante l’ambiente sofisticato, il posto era davvero affollato. Al mio assenso ottenni finalmente una risposta. «Devi rivolgerti a Zora».

«Zora?»

«Zora Lynch, la padrona del locale» mi illuminò. «Si occupa lei di queste cose… È là, guarda. Vicino al bar».

Indicò un punto accanto al bancone e tra la gente scorsi un’appariscente silhouette femminile. Mi voltai nuovamente verso la ragazza per ringraziarla, ma lei era già tornata al lavoro.

Potevano anche non cercare cameriere, ma le poche a disposizione dovevano davvero trottare per stare dietro a un locale così pieno…

Avvicinai la valigia al fianco e mi diressi verso il punto che mi era stato indicato, passando tra poltroncine e fasci di luce soffusa, bottiglie di rosé millesimato e bicchieri di cristallo sorretti da mani inguantate.

Mentre mi avvicinavo, la mia attenzione venne attirata dalle pareti. Locandine dalle scritte eleganti pubblicizzavano diversi eventi a tema: cabaret, serate Moulin Rouge, show anni Venti con bustini di perle e ventagli di piume sgargianti. Un’altra ancora ritraeva alte scacchiere di cristallo al posto dei tavoli; file di bicchierini colorati creavano due schieramenti opposti, in una rivisitazione in chiave lounge del classico gioco degli scacchi.

Non avevo mai visto un posto così.

Forse solo in un romanzo di Fitzgerald o in qualche film ambientato nel primo dopoguerra, con quella patina di eccesso e il lusso sfrenato delle stelle.

Quando raggiunsi la persona che avevo intravisto, mi resi conto che la penombra non le aveva affatto reso giustizia.

Avvolta in quell’arcobaleno di luci e ombre, la figura alta e flessuosa era quella di una giovane donna sui venticinque, ventisei anni. Aveva un viso marcato, a forma di cuore, con lineamenti duri e levigati; avrebbe ricordato una bambola russa se non fosse stato per lo splendido abito di seta che le drappeggiava il corpo, la sottile sciarpa di perline che le oscillava dalle braccia e i tacchi che la slanciavano ulteriormente. Emanava sensualità e autorevolezza. I capelli, castani e a caschetto, erano scalati in una frangia sotto cui spiccavano due splendidi occhi scuri, decisamente arrabbiati.

Notai solo in quel momento la sua espressione: lo sguardo truce, la postura rigida e le sopracciglia affilate emanavano una collera micidiale.

«Cosa significa che si sente male?»

«È-è chiuso in bagno, Zora, non…»

«C’è Toshikawa al tavolo» sibilò lei, indicando a una delle cameriere il distinto ospite dai tratti orientali che avevo scorto poco prima. «Fa parte della clientela più esclusiva del locale. Di’ a James che se non esce da lì nel giro di un secondo lo sbatto fuori a calci!»

«Gliel’ho detto, ma…»

Rimasi in disparte, osservando la scena. Ero arrivata in un momento decisamente sbagliato, ma non potevo andarmene proprio ora, perciò mi mantenni a debita distanza e restai ad ascoltare.

«Solo lui sa come vuole il suo solito». Zora incombette sulla ragazza, sovrastandola come un puma pronto all’assalto. «Vai a ripescare quell’imbecille prima che il nostro ospite si offenda per non essere stato ancora servito!»

Lei annuì, a disagio. Nonostante i modi rudi del suo capo, sembrò intuire che la sua ira non era rivolta a lei, ma a qualcun altro. La seguii con lo sguardo mentre sgusciava via in direzione dei bagni.

Era il mio momento. Ora o mai più.

Mi scostai i capelli dal viso e presi un rapido respiro. Poi, facendo un passo avanti, mi schiarii la gola e infusi nella mia voce tutta la determinazione di cui ero capace.

«Zora Lynch?»

In un fruscio brusco, lei si voltò.

Inaspettatamente mi tesi quando i suoi occhi scuri calamitarono su di me, vigili come quelli di un felino. Possedeva un fascino indiscusso, ma era difficile non sentirsi in soggezione di fronte all’autorità ruvida che emanava.

«Ho sentito che sei il capo. Vorrei lavorare qui».

Il suo sguardo mi si inchiodò addosso. Fissò il mio viso, sperai non per l’aspetto scarmigliato che di certo avevo. Per un istante inspiegabile, mi sembrò quasi sorpresa.

«Sei una cabarettista?» chiese senza convenevoli. Aveva un tono profondo e deciso, che trasudava sicurezza.

«No».

«Allora non mi servi».

Si voltò in un luccichio di perline e si allontanò, mandando in fumo il mio attimo di intraprendenza. Boccheggiai e fui costretta ad andarle dietro per non perdere la sua attenzione. «Non mi sembra che facciate solo spettacoli, qui» obiettai, arrancandole dietro. «L’angolo bar…»

«Non ho bisogno di altre cameriere» sibilò, spazientita. Strinsi i denti, maledicendo il mio pessimo tempismo. La sorte si accaniva su di me con ogni arma possibile.

«Me lo hanno già detto, ma io…» quasi inciampai nella valigia «io non sono qui per questo. So occuparmi di altro. Se solo…»

«Non siamo interessati» ripeté, voltandosi in modo così improvviso che per poco non le finii addosso. La sciarpetta brillò sulle sue braccia come una spolverata di diamanti. Mi fermai prima di scontrarmi con lei, tentando di non urtarla con la valigia.

«Ti chiedo solo di ascoltarmi!» osai in uno slancio cocciuto, mordendomi la lingua quando lei mi fulminò, irritata. Si sporse verso di me, rimarcando una volta per tutte un concetto che non voleva entrarmi in testa.

«Sparisci, ragazzina» sillabò definitiva. «Se non l’hai capito ho altro di cui occuparmi, invece che di una piccola sprovveduta scappata di casa».

La fissai da sotto le sopracciglia, ostinata. Sarò stata anche una ragazzina, sarò stata pure piccola, ma non ero l’inetta che lei credeva. Glielo avrei dimostrato se solo me ne avesse dato la possibilità.

«Sono qui…» ci interruppe una voce maschile alle nostre spalle. Ci voltammo entrambe verso il bancone lì accanto: un ragazzo ci stava scivolando dietro con gesti strascicati.

Zora gli rivolse un’occhiata di fuoco.

«Se hai bevuto di nuovo…»

«No» rispose quello che doveva essere James, in tono arrogante. Malgrado l’atteggiamento, notai una sbavatura nella sua espressione che per un attimo sembrò tradirlo. «Ho fatto indigestione, va bene?»

«Sì, di tequila» lo rimbeccò lei tra i denti. «Poche stronzate, Toshikawa vuole il solito. Vedi di non farlo aspettare ancora o giuro che ti sbatto di nuovo nella cantina di tuo cugino a preparare shottini per gli universitari in Overseas».

Se ne andò in una ventata di profumo seducente, lasciandosi dietro una scia delicata.

Lui borbottò qualcosa di indefinito prima di cominciare a preparare il cocktail. Mi soffermai a studiare i suoi gesti: si muoveva con precisione e agilità, destreggiandosi tra bottiglie e liquori d’annata. Era bravo. Aveva i capelli chiari, ma non riuscii a vedere il colore dei suoi occhi.

«Il solito, il solito…» bofonchiò, stappando un whisky classico per usarlo nella miscela. Ne versò la giusta quantità e lo fece volteggiare tra le mani prima di riporlo al suo posto, pescando il vermouth. Ripeté l’operazione con una maestria a dir poco sorprendente, poi, con un’ultima movenza aggraziata, riempì un bicchierino nascosto dietro le decorazioni da cocktail e lo buttò giù tutto d’un sorso.

Strinse le palpebre, leccandosi le labbra.

La bevuta dovette provocargli un’altra fantomatica indigestione, perché poco dopo lo vidi correre di nuovo in bagno, lasciando il drink appena ultimato sul lucido bancone del bar.

Il Manhattan brillò lievemente nella penombra, in attesa di essere portato al suo cliente. Osservai il cristallo del piccolo calice e la scorzetta di arancia che ne enfatizzava il sapore deciso e rotondo, restando immobile a soppesare le mie possibilità.

Com’è che si diceva? ‘Prendi il toro per le corna’?

Avevo due opzioni: andarmene, oppure tentare il tutto e per tutto.

Se fosse andata male, mi avrebbero cacciata comunque.

Se avessi avuto successo, invece…

Prima ancora di concedermi un istante per riflettere, mollai la valigia sul bancone, lo aggirai e mi ci infilai dietro. Animata da un istinto febbrile, tolsi il cappotto e cacciai tutto sotto il ripiano, buttando la sciarpa sopra quell’ammasso informe.

Mi rimboccai le maniche, legai i capelli e afferrai il Manhattan, rovesciandolo nel lavandino. Per prima cosa scelsi il bicchiere: una coppetta Martini, triangolare e iconica, perfetta per un cocktail morbido e strutturato come quello. La misi dentro il freezer per il ghiaccio e passai a preparare la miscela.

Afferrai un mixing glass, lo riempii di cubetti in modo da raffreddare le pareti del bicchiere e ci versai dentro il vermouth. Bocciai il whisky classico che aveva usato il ragazzo – troppo pungente e forte al palato – e optai per un whisky canadese invecchiato di dieci anni, che misurai con un bicchierino metallico, il jigger. Aggiunsi qualche goccia di angostura e con il lungo cucchiaio del barman mescolai il tutto, lasciando che i sapori si amalgamassero. Sapevo che nella ricetta non c’era, ma optai comunque per un tocco che mi era stato insegnato: una stilla di assenzio, per enfatizzare il gusto del vermouth e farlo esplodere sulla lingua.

Mi asciugai frettolosamente le mani sui pantaloni e spalancai il freezer, tirando fuori il bicchiere gelido. Ci versai dentro il cocktail, leccandomi un polpastrello bagnato. Dovevo fare alla svelta.

Con il cucchiaio spremetti una fettina di arancia per estrarre gli oli essenziali, dopodiché passai la scorza sul bordo del bicchiere affinché diffondesse il suo aroma agrumato.

Infine, afferrai un lungo spillo metallico per la frutta: infilzai un’amarena e la appoggiai sul bordo di vetro, guardandola scintillare con il cuore che batteva a mille.

Mi bloccai così. Gli occhi spalancati, l’adrenalina che mi pompava nel sangue.

Avevo il respiro corto, la gola secca, le dita che quasi tremavano e il petto in subbuglio.

Merda.

E adesso?

D’un tratto mi sentii afferrare per il polso: trattenni il fiato e sollevai lo sguardo. Sbiancai nel vedere Zora, inferocita, che mi fissava come se stesse catalizzando tutte le energie possibili per disintegrarmi.

«Tu» inveì con un soffio omicida, «che diavolo stai facendo?»

«Io…»

«Che ci fai dietro al bancone?» I suoi occhi mi fulminarono, furenti. «Non ti avevo detto di sparire? Pensi di poter venire qui e fare quello che…» La sua voce sfumò, ed entrambe abbassammo il viso.

Il Manhattan non c’era più.

Zora alzò di colpo la testa e inorridì quando lo individuò sul vassoio di una cameriera: quello scintillò beffardo e poi venne servito al tavolo di Toshikawa.

La sentii irrigidirsi, ma fu troppo tardi: l’uomo sollevò un sopracciglio davanti alla nuova veste del suo drink, poi se lo portò alle labbra e aggrottò la fronte. La sentii stritolare il mio polso con un tic quasi nevrotico.

Ora sì che mi avrebbe trucidata.

«Tu… tu…» mormorò, così fuori di sé da non riuscire neanche a sentenziare la mia fine. Deglutii, non osando nemmeno fiatare. Ero nei guai fino al collo. Il suo ospite scandagliò la sala e si voltò a cercarla: con un cenno secco la invitò ad avvicinarsi e lei serrò la presa su di me. «Ti conviene andartene da qui prima che io torni, se ci tieni alla pelle…» sibilò in un tono così minaccioso che non me lo feci ripetere due volte.

Mi lasciò andare e io mi affrettai a raccattare le mie cose. La guardai a malapena allontanarsi verso il suo ospite mentre raccoglievo la giacca, ma sussultai quando d’improvviso la ragazza dell’ingresso entrò in sala puntandomi un dito contro.

«Eccola!»

Il mio battito accelerò. Un omone della sicurezza marciò verso di me con incredibile rapidità. Arraffai la valigia, la sciarpa e aggirai impacciata il bancone, ma scivolai. Prima che potessi sfracellarmi al suolo, venni agguantata per il braccio da una morsa d’acciaio.

«Non si entra di soppiatto» tuonò il bodyguard con un vocione cavernoso e un accento straniero. Strinse la presa e io soffiai come un animale selvatico. Cercai di liberarmi, ma fu del tutto inutile: venni trascinata malamente verso l’uscita, senza alcun riguardo per le mie cose.

«Non toccarmi!» Mi dimenai mentre attraversavamo le porte. La ragazza si scostò, rivolgendomi un sorrisetto soddisfatto.

«Addio» cinguettò spavalda, facendomi friggere le viscere per la rabbia. Le avrei rivolto un insulto se non fosse stato ancora più mortificante.

Avevamo appena superato la scrivania all’ingresso quando inaspettatamente una voce tagliò l’aria.

«Sergei, aspetta».

L’uomo si fermò di scatto e per il contraccolpo quasi gli crollai addosso. Sbattei le palpebre, scombussolata, e dovetti voltarmi per essere certa di non aver sentito male: alle nostre spalle, Zora sembrava una dea pagana davanti alle porte di un bellissimo inferno.

«Zora, non ha pagato l’entrata» la informò la ragazza, con un tono dolce e pieno di rispetto, ma lei, che non ne sembrò sorpresa, non parve nemmeno curarsene.

«Accompagnala di sopra».

«Ma…»

«Fallo» ordinò a Sergei, ignorando del tutto le proteste della sua dipendente. Poi sparì di nuovo dentro.

Il bodyguard mi lasciò andare e io mi staccai bruscamente da lui: mi massaggiai il braccio e gli rivolsi il mio sguardo più velenoso.

«Di qua» mi esortò. Il mio orgoglio ammaccato ruggì e ringhiò, ma mi sforzai di tenerlo a bada, almeno per il momento. Seguii Sergei quando mi fece strada, passando di nuovo accanto alla ragazza.

«Ci si rivede» sibilai scorbutica, superandola. Fui certa di sentirla irritarsi ma non la degnai di altre attenzioni.

Venni condotta su per una piccola scala accanto all’ingresso. Portava a un pianerottolo illuminato da lampade foderate in seta, sul quale si apriva una porta di legno intarsiato.

L’uomo abbassò la maniglia e la aprì, invitandomi a entrare. Gli scoccai un’occhiata guardinga e diffidente, e osservai la stanza.

Mi ritrovai sulla soglia di un piccolo studio dall’aria elegante e sofisticata. Tendaggi di raso e poltrone in pelle e velluto emergevano alla luce di una lampada rétro, ricreando un’atmosfera suggestiva che contribuiva al fascino dell’ambiente. Le pareti erano foderate da una carta da parati color ciclamino, a cui si intonavano le sfumature dei mobili e dei complementi d’arredo, dalle abat-jour color rosa polvere al lungo divanetto con i piedini in ottone a forma di zampe di leone.

Entrai cauta, guardandomi intorno. Con un cenno a Sergei, Zora mi seguì, e l’uomo richiuse la porta. Rimasi immobile mentre lei si posizionava dietro la scrivania di legno, dritta sui tacchi alti, e puntava finalmente gli occhi nei miei.

Mi guardò per un tempo interminabile, un istante di infinita tensione.

«Che cos’era quello?»

Non c’era bisogno di specificare a cosa si riferisse. Ero sveglia, e glielo avrei dimostrato.

«Un Manhattan Reverse».

Le sue pupille mi inchiodarono, brillando come gemme inquisitorie.

«Chi ti ha insegnato?»

Tacqui, ricambiando il suo sguardo senza alcun timore.

«Gli è piaciuto?» domandai.

Lei assottigliò le palpebre, come a intimarmi di non fare giochetti, e mi diede una risposta che dovette costarle molto.

«Sì».

Aspettò la mia reazione, forse un sorriso astuto o una smorfia soddisfatta, ma non mostrai alcun segno di vanto. Ricambiai soltanto il suo sguardo, consapevole e determinata, e quella fu una risposta sufficiente.

Si accomodò lentamente sulla poltrona, allungando una mano verso il cassetto della scrivania. Tra ventagli e boccette di profumo, tirò fuori un lungo bocchino nero e una sigaretta, che accese e aspirò a fondo, appoggiandosi allo schienale.

«Che cosa vuoi?»

«Voglio un lavoro».

Zora mi studiò intensamente. Lì, tra le luci soffuse e il fumo che l’avvolgeva, sembrava davvero una diva degli Anni Ruggenti.

«Quanti anni hai?»

«Ventuno».

«Cazzate» sibilò, stroncandomi all’istante. La osservai stizzita e lei rincarò la dose. «Non mentirmi. O ti farò uscire di qui all’istante».

«Okay» mormorai lentamente. «Ne ho diciannove».

«Sei piccola».

«Ne bastano diciotto per servire alcolici in un bar».

Il sottile filo di fumo disegnava arabeschi nell’aria, tuttavia non mi distrassi. I suoi occhi scivolarono accorti sul mio viso, proprio come il primo istante in cui mi aveva vista. Di nuovo, non capii perché.

«Dove sono i tuoi genitori?»

Esitai e distolsi lo sguardo. Premetti le labbra tra loro ricordando le sue parole, nessuna bugia.

«Lontano».

In fondo era la verità.

«E dove alloggi?»

«È un interrogatorio?» replicai spazientita, ma bastò un’occhiata a farmi capire che o rispondevo alle sue domande o Sergei mi avrebbe accompagnata a fare una passeggiata di non ritorno. Strinsi gli occhi e cercai di frenare l’indole tenace e ribelle che mi scalpitava nel sangue.

«Voglio capire chi ho davanti» mise in chiaro, accavallando le lunghe gambe. Nonostante comprendessi il suo punto di vista, quando mi ritrovavo a parlare di me mi sentivo sempre un po’ vulnerabile.

«Sto in un ostello, a Kensington».

«Kensington?» Zora sollevò un sopracciglio. «Hai voglia di scherzare? È uno dei quartieri più malfamati della città».

Lo sapevo bene, in realtà. Quando ero arrivata, quella mattina, mi ero recata in zona per dare un’occhiata al posto dove avrei alloggiato: un vecchio ostello vicino a un grande cavalcavia, con la spazzatura lungo il marciapiede e i sacchi a pelo dei senzatetto annidati agli angoli della strada. I pali della luce erano pieni di manifesti strappati e l’odore a tratti era nauseante, i rumori dei binari vicini e della vita insalubre di quel quartiere scorrevano fra vecchie insegne pubblicitarie dalla carta graffiata.

Non proprio un posto raccomandabile.

«Lo sai quanto duri tu in quella zona?»

«Non posso permettermi altro» risposi, pensando alle camerate comuni che mi aspettavano. In genere avrei evitato un posto in cui c’era il rischio che ti rubassero tutto, ma ero abbastanza disperata.

Lei atteggiò le labbra in una smorfia. Picchiettò il dito smaltato sul bocchino, lasciando cadere la cenere dentro un piattino di cristallo, e rifletté qualche istante, prima di farmi un’altra domanda.

«Cosa ti ha portato al mio locale?»

‘Un miracolo’ avrei potuto rispondere, ma scelsi invece la versione più realistica. Risposi che avevo girato tutto il giorno, che avevo cercato lavoro in lungo e in largo senza ricevere un’opportunità. Le dissi che ero venuta a Philadelphia in cerca di fortuna, perché al momento avevo davvero bisogno di soldi e nella mia cittadina le possibilità erano poche e le prospettive ancora meno. Lei ascoltò in silenzio, senza mai interrompermi, e aspettò fin quando non terminai di esporre le mie ragioni.

«Allora? Mi assumerai?» domandai alla fine.

Zora diede un’ultima lunga boccata, poi spense la sigaretta. Con gesti rilassati sfregò bene la punta nel piattino, rimosse il mozzicone e batté piano il bocchino sulla scrivania, prendendosi tutto il tempo che le occorreva. Osservai quel rituale in silenzio, sospesa, per un istante che risultò eterno.

«Sei parecchio testarda» constatò lentamente. «Dubito che andremmo d’accordo». Sollevò gli occhi su di me, severa. «Sei assunta».

Stavo quasi per concedermi un gemito di sollievo, quando lei si alzò in piedi.

«Ma al primo casino, sei fuori» mi ammonì, con quel tono feroce che non ammetteva repliche.

Annuii, cercando di mostrarmi credibile e accondiscendente. Zora si sistemò la sciarpetta di perline, poi spinse il pulsante di un piccolo citofono sulla scrivania. «Vai a lasciare giù la tua roba. Una delle ragazze ti mostrerà dove».

Svelta, raccolsi il cappotto che mi era scivolato a terra e feci come mi aveva detto. Strinsi la valigia e camminai con passo sicuro, sperando che non le venisse in mente di cambiare idea. Avevo quasi raggiunto la porta, quando lei mi fermò.

«Un momento. Non mi hai ancora detto come ti chiami».

I miei passi si arrestarono. Lì, nel silenzio dello studio, quella domanda sembrò l’inizio di un destino che avevo rincorso con tutta me stessa.

«Mireya» risposi, con tono deciso. «Mi chiamo Mireya».

Ce l’avevo fatta.

Una parte di me ancora non riusciva a crederci, ma quando uscii dall’ufficio e venni raggiunta da una delle ragazze che lavoravano lì realizzai che era tutto vero.

Era la cameriera dalla pelle color cioccolato che mi aveva indicato Zora; si chiamava Ruby Turner, e aveva solo un anno e mezzo più di me: tra qualche mese ne avrebbe compiuti ventuno. Lì dentro era la più giovane, ma mi spiegò che era da un po’ che non prendevano gente nuova.

Dopo aver lasciato le mie cose in uno stanzino, mi accompagnò in giro per mostrarmi il locale. Le chiesi se non fosse un problema abbandonare momentaneamente il servizio, ma scoprii che dopo il responso di Toshikawa la tensione in sala era notevolmente diminuita.

«Una volta questo locale era uno speakeasy» mi informò, mentre percorrevamo uno dei corridoi riservati allo staff.

«Un… che cosa?»

«Sai, i bar segreti che nacquero all’epoca del proibizionismo? Ecco. Si nascondevano nei retrobottega di negozi, macellerie, barbieri… Per questo è in un seminterrato, nascosto alla città. Non so se sai come funzionava, ma in quei locali si entrava solo tramite conoscenze e con una precisa parola d’ordine. Erano ambienti molto selettivi».

«Ed esistono ancora locali del genere?»

«Oh, sì» replicò lei con un sorriso. «Sono rari, ma ce ne sono. Anche il Milagro’s era uno speakeasy, hai visto la cappelleria? Una volta si entrava da lì, attraverso una porta nascosta dietro uno specchio. Ma ha avuto così tanto successo che tutti ormai sapevano dove si trovasse e quale fosse la parola d’ordine per entrare, anche se cambiava tutte le settimane. Così Zora ha deciso di mettere l’insegna e renderlo uno dei club più esclusivi della città».

Ora mi spiegavo lo stile rétro, gli spettacoli di cabaret e quell’aria così scenografica.

Ruby mi raccontò che in quei locali si replicava l’atmosfera di quel periodo, offrendo agli ospiti non solo una varietà di cocktail originali e ricercati, ma anche un ambiente fascinoso e un intrattenimento che rendevano l’esperienza unica e indimenticabile.

«Wow» commentai piano.

«Già» rispose, mentre imboccavamo una serie di corridoi che si snodavano tutto intorno al locale, sotto la città. Avrei dovuto ricordarmi bene la strada per non perdermi. Quel posto sembrava un labirinto.

Raggiungemmo l’area che portava vicino alle quinte. Era lì che le ballerine si cambiavano prima di andare in scena, ma un chiasso anomalo attirò la mia attenzione.

Dentro la stanza adibita ai camerini, piena di accessori, attaccapanni e vestiti di scena, vidi una piccola folla. Una decina di ragazze con indosso abiti di pizzo variopinto e membri del personale che lavoravano nel retropalco se ne stavano fermi di spalle, quasi immobili. Aggrottai la fronte, rallentando. Perché sembravano tutti… raggelati?

«Che succede?»

«Mhm?» Ruby inclinò il viso, sorridente, e quando notò la direzione del mio sguardo si voltò anche lei. Dopo qualche istante, vidi i suoi occhi bloccarsi e il sorriso scivolare via, sostituito da un’espressione tesa che cercò a tutti i costi di mascherare. Fece finta di nulla e distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio.

«Andiamo via» mormorò. «Vieni, di qua».

Mi invitò a seguirla, ma per qualche motivo non le diedi ascolto. C’era qualcosa che decisamente non andava, e ne ebbi conferma quando mossi un passo di lato e lei cercò di trattenermi.

Mi liberai dalla sua presa, redarguendola con un’occhiata seria. Era davvero troppo tesa per darmela a bere. Se pensava fossi il tipo che ubbidiva a tutto e annuiva senza mai fare domande, decisamente non mi conosceva. Caparbia, le voltai le spalle e mi avvicinai, decisa a capire ciò che stava succedendo. Sgusciai tra la folla, facendomi largo per passare. Solo quando emersi oltre il muro di gente mi accorsi che erano tutti ammassati intorno a uno spazio vuoto.

Quello che vidi mi lasciò senza fiato.

In piedi, al centro, c’era un ragazzo.

Era di spalle, e dal modo in cui era piegato in avanti riuscivo solo a intravedere la capigliatura, di un rosso così scuro da risultare quasi nero. Aveva un avambraccio poggiato su un ginocchio, la suola della scarpa puntellata contro il muro.

Sotto di lui, con la schiena alla parete e inghiottito interamente dalla sua ombra, un altro lo fissava con occhi terrorizzati. I capelli scarmigliati e i diversi punti del viso lucidi e arrossati furono un segnale sufficiente.

Fissai quella scena con lo stomaco ridotto a un groviglio.

Ma che diavolo stava succedendo?

Lanciai occhiate alla folla che li fissava senza fare niente.

C’era da stare a guardare? Che scenetta disgustosa era mai quella?

«Sì, è vero» disse una voce, strappandomi ai miei pensieri. Era stato quello in piedi a parlare. Sembrava un gigante, ma dal tono fresco e profondo che gli sgorgò dal petto capii che non doveva essere troppo più grande di me. «Mi sono fottuto la tua ragazza». Fissò il volto sotto di sé con calma innaturale. «La cosa non dovrebbe sorprenderti, dopotutto. Mi ha praticamente implorato».

La ragazza in questione osservava la scena senza il coraggio di intervenire. Era vestita da cancan, forse per uno spettacolo che sarebbe iniziato di lì a poco, e intuii che fosse una delle ballerine del locale. A quelle parole strinse le labbra, bruciando di vergogna, e tutti fissarono quella scena senza muovere un dito.

Perché stavano lì a guardare?

Perché nessuno faceva niente?

Una sensazione ruvida mi tese i polsi, quando il ragazzo staccò la scarpa dalla parete e la appoggiò sulla faccia dell’altro, costringendolo a ruotare la testa.

Sorrise, il ghigno nella voce.

«Magari» celiò, sottilmente divertito, «se ci tiene così tanto» il tono sardonico e ruvido come la pietra, «… più tardi, perché no, mi ci faccio un altro giro…»

Un sonoro schiaffo rimbombò nell’aria e zittì l’intera stanza.

Calò un silenzio tombale.

Passò un numero incessante di secondi in cui gli sguardi ammirati e increduli di tutti i presenti rimasero fissi sul palmo arrossato, ancora sollevato in aria.

Era il mio.

Persino quello a terra, adesso, aveva sul viso un’espressione di puro orrore e mi fissava sconvolto.

Nell’immobilità che aveva congelato tutti, vidi il ragazzo voltare lentamente il viso.

Il suo sguardo emerse da sotto le ciocche che gli erano finite davanti alla faccia. Sotto quei capelli scuri, due iridi di un azzurro più penetrante del ghiaccio si posarono lente e precise su di me.

«Animale» sibilai nel silenzio totale, fissandolo dritto negli occhi.

Non ci fu il tempo di fare altro.

Di pensare altro.

In quel momento gli addetti alla sicurezza piombarono nella stanza e la folla si spaccò di netto. Il ragazzo che avevo colpito venne trascinato indietro: dovettero tirarlo via a forza, poi qualcuno mi afferrò e mi portò via.

Il braccio di Ruby si serrò intorno al mio mentre ci allontanavamo frettolosamente dalla calca. Eppure fui certa di sentire qualcosa bucarmi la schiena, anche attraverso la gente. Quei due occhi di un azzurro mai visto che fendevano l’aria, affilati come pezzi di vetro.

«Che cosa hai fatto…» mormorò lei. «Che cosa hai fatto…»

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