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Tua per sempre, Lara Jean

Author: Jenny Han

11,4014,15

Lara Jean sta vivendo il miglior ultimo anno di liceo che una ragazza possa sognare. È perdutamente innamorata del suo fidanzato, Peter, con cui andrà in gita a New York e poi al mare per un’intera settimana. Dopo il matrimonio di papà con la signora Rothschild, frequenterà un’università così vicina da poter tornare a casa ogni weekend a sfornare torte al cioccolato. Purtroppo, però, il destino ha altri piani, e Lara Jean, che detesta il cambiamento più di qualsiasi altra cosa, dovrà ripensare al proprio futuro. Quando il cuore e la testa dicono cose diverse, quale dei due si dovrebbe ascoltare?

Informazioni aggiuntive

Editore

ISBN-13

978-8817178815

Data di pubblicazione

22 settembre 2022

Lingua

Italiano

Formato

Copertina flessibile, Copertina rigida

COD: 9219 Categoria: Tag: Product ID: 21237

Descrizione

1

 

Mi piace guardare Peter quando non sa che lo sto osservando. Mi piace contemplare la linea dritta della sua mascella, la curva del suo zigomo. C’è un candore sul suo volto, un’innocenza… un particolare tipo di gentilezza. È quella gentilezza che mi tocca il cuore più di ogni altra cosa.

È un venerdì sera e dopo la partita di lacrosse siamo venuti a casa di Gabe Rivera. La nostra scuola ha vinto, quindi siamo su di giri; Peter più degli altri perché è stato lui a segnare il punto decisivo. In questo momento è dall’altra parte della stanza a giocare a poker con alcuni compagni di squadra, la sedia in equilibrio su due gambe, all’indietro, la schiena contro il muro, i capelli ancora umidi per la doccia del dopo partita. Io, invece, sono sul divano con i miei amici Lucas Krapf e Pammy Subkoff, che sfogliano l’ultimo numero di «Teen Vogue» e discutono se Pammy debba o meno farsi la frangia.

«Tu che ne pensi, Lara Jean?» chiede Pammy, passandosi le dita tra i capelli color carota. Pammy è una ragazza che ho conosciuto perché esce con Darrell, un amico di Peter. Ha il volto di una bambola, tondo come una ciambella, e spruzzatine di lentiggini su viso e spalle.

«Ecco, io credo che la frangia sia una scelta importante, da non decidere sull’onda di un capriccio passeggero. Dipende da quanto in fretta ti crescono i capelli, per esempio: potresti metterci un anno, anche di più, per riaverli lunghi. Secondo me sarebbe meglio aspettare l’autunno perché in estate la frangia può rivelarsi appiccicosa, sudaticcia e irritante…» I miei occhi tornano a posarsi su Peter, che alza lo sguardo, si accorge che lo sto osservando e solleva le sopracciglia con aria interrogativa. Mi limito a sorridere e a scuotere la testa.

«Allora niente frangia?»

Sento il cellulare vibrare nella borsa. È Peter.

Vuoi che andiamo?

No.

Allora perché mi stavi guardando?

Perché mi andava di farlo.

Lucas legge da dietro le mie spalle. Lo spingo via e lui scuote il capo dicendo: «Davvero vi messaggiate quando siete a pochi metri l’uno dall’altro?».

Pammy arriccia il naso e dice: «Che dolci».

Sto per replicare quando alzo gli occhi e vedo Peter venire nella mia direzione in modo deciso. «È ora di portare la mia ragazza a casa» dice.

«Che ore sono?» chiedo. «È già così tardi?» Peter mi tira su dal divano e mi aiuta a infilare la giacca. Poi mi prende per mano e mi guida attraverso il soggiorno. Mi volto a guardare gli amici salutando con la mano: «Ciao, Lucas! Ciao, Pammy! Comunque staresti benissimo con la frangia!».

«Perché tanta fretta?» chiedo a Peter che mi costringe a camminare velocemente attraverso il cortile sino alla strada dove ha parcheggiato la macchina.

Si ferma davanti all’auto, poi mi tira a sé e mi bacia. «Non riesco a concentrarmi sulle carte quando mi guardi in quel modo, Covey.»

«Mi dispiace» sto per dire, ma Peter mi bacia di nuovo, le mani premute contro la mia schiena.

Mentre saliamo in macchina lo sguardo mi cade sul cruscotto: è soltanto mezzanotte. «Ho ancora un’ora prima di dover rientrare. Che cosa facciamo?»

Tra le persone che conosco, io sono l’unica ad avere un orario da rispettare. Quando scocca l’una, mi trasformo in una zucca. Ormai nessuno si stupisce più: la ragazza-a-modo di Peter Kavinsky che deve essere a casa entro l’una in punto. Onestamente, non mi ha mai dato fastidio. Non è che mi perda chissà quale meraviglia… com’è quel vecchio detto? Dopo le due di notte non succede più niente. A meno che non si trovi divertente guardare qualcuno che gioca a Flip Cup. Non io. Io preferisco il mio pigiama di flanella, una tisana rilassante e un buon libro. Assolutamente.

«Andiamo a casa tua. Entro un attimo a salutare tuo padre e mi fermo per un po’. Potremmo finire di guardare Aliens.» Peter e io abbiamo scritto una lista di film che comprende quelli scelti da me (che lui non ha visto), quelli scelti da lui (che io non ho visto) e quelli che nessuno dei due ha ancora visto. Aliens è uno dei suoi e ho scoperto che non è affatto male. E anche se una volta Peter ha detto che non ama le commedie romantiche, Insonnia d’amore gli è piaciuto molto. Per me è stato un sollievo perché non so se potrei stare con qualcuno che non ama quel film.

«Non torniamo subito a casa» propongo. «Andiamo da qualche parte.»

Peter ci pensa un attimo, tamburella con le dita sul volante e poi dice: «Mi è venuto in mente un posto».

«Dove?»

«Aspetta.» Peter abbassa i vetri e l’aria fresca della notte entra nell’auto.

Mi appoggio allo schienale. Le strade sono vuote, quasi tutte le case hanno le finestre buie. «Fammi indovinare. Stiamo andando in caffetteria perché hai voglia di pancake ai mirtilli.»

«No.»

«Mmm. È troppo tardi per andare da Starbucks e Biscuit Soul Food è chiuso.»

«Ehi, guarda che non mi interessa solo mangiare» protesta Peter. Poi chiede: «C’è ancora qualche biscotto?».

«Se Kitty non se li è mangiati tutti.» Metto il braccio fuori dal finestrino e lo lascio penzolare. È una delle ultime sere in cui c’è ancora abbastanza fresco da avere bisogno di una giacca.

Con la coda dell’occhio guardo il profilo di Peter. A volte non riesco a credere che sia mio. Il più bel ragazzo fra tutti i bei ragazzi è mio, tutto mio.

«Che c’è?» chiede.

«Niente.»

Dieci minuti dopo siamo dentro il campus dell’Università della Virginia, anche se nessuno lo chiama campus: è l’UVA e basta. Peter parcheggia a lato della strada. È tranquillo per essere la notte di venerdì in una cittadina universitaria, ma è la settimana delle vacanze di primavera e molti ragazzi sono via.

Camminiamo attraverso il prato, mano nella mano, quando di colpo vengo assalita da un’ondata di panico. Mi fermo e chiedo: «Ehi, non pensi che possa portarmi sfortuna venire qui prima di essere stata ammessa?».

Peter ride. «Non è un matrimonio. Non stai per sposare questo posto.»

«Per te è facile, sei già dentro.»

Peter ha un accordo verbale con la squadra di lacrosse dell’Università della Virginia che risale allo scorso anno, e ha presentato una domanda di iscrizione anticipata in autunno. Come la maggior parte degli studenti che praticano sport a buon livello, gli bastavano voti accettabili per essere ammesso. Quando ha avuto la conferma ufficiale, lo scorso gennaio, sua madre ha organizzato una festa e io ho preparato una torta con una scritta di glassa gialla che diceva: Vado a vincere con l’UVA.

Peter mi tira per la mano ed esclama: «Andiamo, Covey. Siamo noi gli artefici della nostra fortuna. E poi siamo già stati qui due mesi fa al Miller Center».

«Ah, è vero.»

Riprendiamo a camminare sul prato. Adesso so dove stiamo andando. Alla Rotunda, per sederci sulla gradinata. La Rotunda è stata disegnata da Thomas Jefferson, il fondatore della scuola, sul modello del Pantheon, con il colonnato bianco e la grande cupola. Peter corre su per i gradini di mattoni, stile Rocky, e una volta in cima si siede a terra. Io mi sistemo davanti a lui, appoggiandomi con la schiena al suo corpo. «Sai che cosa rende unica l’Università della Virginia? Il suo centro, che si trova proprio dentro alla Rotunda, è una biblioteca e non una chiesa. Jefferson credeva che scuola e religione dovessero rimanere due cose separate.»

«L’hai letto nell’opuscolo?» mi prende in giro Peter baciandomi sul collo.

«Ce l’hanno detto durante la visita guidata dell’anno scorso» rispondo con tono sognante.

«Non me l’avevi raccontato. Perché fare un tour del posto, proprio tu che sei di qui? Ci sarai stata un milione di volte!»

Ha ragione, ci sono stata un milione di volte. Sono cresciuta qui con la mia famiglia. Quando mamma era ancora viva andavamo a sentire i cori a cappella, che le piacevano molto. Abbiamo anche una foto tutti insieme sul prato. E nei giorni di bel tempo, dopo essere stati in chiesa, venivamo qui a fare un picnic.

Mi volto per guardare Peter. «Ho fatto il tour guidato perché volevo sapere tutto su questa università! Cose che anche chi vive qui non sa. Per esempio, tu lo sai quando hanno permesso alle donne di frequentare l’università?»

Peter si gratta la nuca. «Mmm… non saprei. Quando è stata fondata la scuola? Nei primi dell’Ottocento? Nel 1920?»

«No. Era il 1970.» Mi volto di nuovo verso il prato. «Dopo centocinquant’anni.»

«Wow. Ma è pazzesco» esclama Peter, incuriosito. «Dai, raccontami qualcos’altro.»

«È l’unico college statunitense a essere stato nominato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.»

«Ok, basta così» dice Peter. «Adesso spiegami perché muori dalla voglia di entrare in quest’università.»

«Dimmelo tu, prima. Perché sei così felice all’idea?»

«Semplice» risponde immediatamente. «Per correre nudo sul prato con te.»

«È questo che aspetti con ansia? Scorrazzare in giro senza vestiti?» Poi aggiungo in fretta: «Sia chiaro che io non farò mai una cosa del genere».

Peter si mette a ridere. «È la tradizione dell’UVA. Pensavo che ci tenessi alle tradizioni.»

«Peter!»

«Sto scherzando.» Si sporge in avanti e mi cinge le spalle, strofinandomi il naso sul collo. Peter adora sfiorarmi il collo così. «Tocca a te.»

Mi concedo un minuto per pensarci. Se sarò ammessa, che cosa mi piacerebbe fare? Sono così tante le cose, che a malapena riesco a elencarle tutte. Mi piacerà mangiare waffle ogni giorno con Peter. Scendere in slittino con lui dalla collina dell’Osservatorio in inverno. I picnic nella bella stagione. Restare svegli sino a notte fonda a parlare, svegliarsi e parlare ancora. Fare il bucato in lavanderia la sera tardi e decidere di partire per un viaggio all’ultimo momento. Fare… qualunque cosa. Alla fine dico: «Non voglio gufare».

«E dai!»

«E va bene! Penso che la cosa che mi attiri di più sia poter andare nella sala McGregor ogni volta che ne avrò voglia.» La gente la chiama la stanza di Harry Potter, perché ci sono tappeti, candelabri, poltrone di cuoio e ritratti appesi ai muri. Gli scaffali occupano le pareti da cima a fondo e i libri, preziosissimi, sono protetti da grate di metallo. È una stanza d’altri tempi. Silenziosa, quasi autorevole. Un’estate, dovevo avere cinque o sei anni perché Kitty non era ancora nata, mamma seguiva un corso all’università. Margot e io disegnavamo o leggevamo, mentre lei studiava. La mamma la chiamava la “biblioteca magica” perché Margot e io non litigavamo mai lì dentro. Restavamo quiete come topolini: tutti quei libri, tutti quei ragazzi concentrati ci intimidivano.

Peter sembra deluso. Immagino si aspettasse qualcosa da fare insieme, io e lui. Diciamo che, per il momento, voglio tenere quelle speranze solo per me.

«Puoi venire nella sala McGregor» aggiungo. «Ma devi promettere di non fare rumore.»

«Lara Jean,» mi dice Peter con tono affettuoso «solo tu puoi desiderare con tutto il cuore di frequentare una biblioteca.»

In realtà, a giudicare anche solo da Pinterest, sono sicurissima che a un sacco di gente piacerebbe avere a disposizione una biblioteca così bella. Semplicemente non sono le persone che conosce Peter. Lui pensa che la sua ragazza sia un tipo molto originale. E non sarò io a informarlo del fatto che, in realtà, non lo sono poi tanto, e che siamo in molti a essere felici di poter stare a casa a preparare biscotti, incollare foto e ritagli sull’album dei ricordi e di visitare biblioteche. Anche se la maggior parte di queste persone probabilmente è sulla cinquantina… Comunque, mi piace il modo in cui mi guarda, come se fossi una ninfa dei boschi incontrata per caso che ha dovuto portare a casa e tenere con sé.

Estrae il cellulare dalla tasca della felpa. «È mezzanotte e mezza. Dovremmo andare.»

«Di già?» chiedo sospirando. Mi piace essere qui in piena notte. Sembra che l’intero posto ci appartenga.

Nel mio cuore c’è sempre stata l’UVA. Non mi sono mai aspettata davvero di andare da nessun’altra parte, non l’ho nemmeno mai preso in considerazione. Avevo pensato di iscrivermi subito, insieme a Peter. Ma la mia tutor, la signora Duvall, mi ha dissuasa da un’iscrizione prima del tempo. Pensava che fosse meglio aspettare che la commissione esaminatrice avesse la possibilità di vedere i miei voti del primo quadrimestre. Secondo la signora Duvall è sempre meglio fare domanda quando si è all’apice.

E così ho finito per presentare domanda in cinque università diverse. Per prima l’UVA, quella in cui è più difficile essere ammessi e che è solo a quindici minuti da casa mia; poi la William and Mary, seconda in ordine di difficoltà, a due ore da qui; come terza scelta, a pari merito, l’università di Richmond e la James Madison, entrambe a circa un’ora di distanza. Queste quattro sono tutte entro i confini dello Stato. Ma la signora Duvall mi ha convinta a fare domanda anche presso l’università di un altro Stato, perché è sempre meglio avere anche quell’opzione; così ho spedito la domanda anche all’Università del Nord Carolina, la UNC di Chapel Hill. Lì è davvero difficile essere ammessi, ma ho fatto un tentativo ugualmente perché mi ricorda l’UVA. Ha un ottimo programma di studi umanistici ed è abbastanza vicina per tornare a casa velocemente, se fosse necessario.

Ma se potessi, sceglierei l’UVA sempre e comunque. Io non ho mai voluto allontanarmi da casa. Io non sono come mia sorella Margot. Il suo sogno era andarsene da qui. Lei ha sempre aspirato a conoscere il mondo. Invece io desidero solo restare qui e, siccome per me l’UVA è casa, questo è il motivo per cui l’ho presa come metro di paragone per valutare le altre. Per me è il campus ideale, dove tutto è perfetto. E poi c’è Peter, naturalmente.

Restiamo seduti ancora un poco, mentre racconto a Peter qualche altro aneddoto sull’università e lui mi prende in giro. Poi mi accompagna a casa. Le luci al piano terra sono spente, ma in camera di papà no. Non va mai a letto prima che io sia rientrata.

Faccio l’atto di scendere, ma Peter si allunga e mi blocca proprio mentre sto per aprire lo sportello. «Dammi un bacio della buonanotte come si deve.»

«Peter! Devo andare» rispondo ridendo.

Senza ascoltare ragioni chiude gli occhi e resta in attesa. Mi chino su di lui e gli do un rapido bacio sulle labbra. «Ecco. Soddisfatto?»

«No.» Mi bacia di nuovo, come se avessimo tutto il tempo del mondo e chiede: «Che cosa succederebbe se tornassi dopo che tutti sono andati a dormire, passassi la notte con te e me ne andassi al mattino presto? Diciamo, prima dell’alba?».

«Non puoi, quindi non lo sapremo mai» rispondo sorridendo.

«Ma se lo facessi?»

«Mio padre mi ucciderebbe.»

«No, non lo farebbe.»

«Ucciderebbe te.»

«No, non lo farebbe.»

«No, in effetti» ammetto. «Ma sarebbe deluso da me. E furioso con te.»

«Solo se ci beccasse» dice Peter, ma non sembra molto convinto. Nemmeno lui rischierebbe. Ci tiene troppo a restare nelle grazie di papà. «Sai cosa aspetto più di ogni altra cosa?» Mi dà una tirata alla treccia e dice: «Il momento in cui non ci dovremo più dare la buonanotte. Odio darti la buonanotte».

«Anch’io.»

«Non vedo l’ora di essere al college con te.»

«Anch’io» ripeto e lo bacio un’ultima volta, prima di scendere dalla macchina e correre verso casa. Mentre mi allontano, alzo gli occhi e guardo la luna e le stelle che coprono il cielo come una coperta ed esprimo un desiderio. Caro Dio, ti prego, ti prego, fammi entrare all’UVA.

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