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Un giorno questo dolore ti sarà utile

Il prezzo originale era: €12,00.Il prezzo attuale è: €11,40.

James ha 18 anni e vive a New York. Finita la scuola, lavoricchia nella galleria d’arte della madre, dove non entra mai nessuno: sarebbe arduo, d’altra parte, suscitare clamore intorno a opere di tendenza come le pattumiere dell’artista giapponese che vuole restare Senza Nome. Per ingannare il tempo, e nella speranza di trovare un’alternativa all’università («Ho passato tutta la vita con i miei coetanei e non mi piacciono granché»), James cerca in rete una casa nel Midwest dove coltivare in pace le sue attività preferite – la lettura e la solitudine –, ma per sua fortuna gli incauti agenti immobiliari gli riveleranno alcuni allarmanti inconvenienti della vita di provincia. Finché un giorno James entra in una chat di cuori solitari e, sotto falso nome, propone a John, il gestore della galleria che ne è un utente compulsivo, un appuntamento al buio… I puntini di sospensione sono un espediente abusato, ma in questo caso procedere oltre farebbe torto a uno dei pochi scrittori sulla scena che, come sa bene chi ha amato «Quella sera dorata», chiedono solo di essere letti. Anticipare le avventure e i pensieri di James rischierebbe di mettere in ombra la singolare grazia che pervade questo libro, e da cui ci si lascia avvolgere molto prima di riconoscere, nella sua ironia inquieta e malinconica, qualcosa che pochi sanno raccontare: l’aria del tempo.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

9 giugno 2010

ISBN-13

978-8845925023

Lingua

Italiano

Formato
Copertina flessibile

€ 12,00

COD: 7910 Categoria: Tag: Product ID: 21200

Descrizione

1

 

Giovedì 24 luglio 2003

Gillian, mia sorella, ha deciso di pronunciare il suo nome con la g dura lo stesso giorno in cui mia madre è tornata dalla luna di miele in anticipo e da sola. Le due cose non mi hanno stupito. Gillian, che era fra il terzo e il quart’anno di università, aveva una storia con un professore di «teoria del linguaggio», un certo Rainer Maria Schultz, e era diventata una specie di fanatica della «lingua pura», di cui Ghillian doveva essere un esempio. Mia madre, invece, aveva deciso piuttosto avventatamente di sposare un tipo strano che si chiamava Barry Rogers. Io e Gillian avevamo sospettato da subito che quel matrimonio (il terzo) non sarebbe durato, ma pensavamo che sarebbe sopravvissuto almeno alla luna di miele, anche se avevamo appreso con un certo scetticismo che l’avrebbero fatta a Las Vegas. Lei, che per tutta la vita aveva sempre evitato come la peste quel genere di posti, snobbando beata chiunque ci andasse o pensasse solo lontanamente di andarci, aveva annunciato, con un tono preoccupante da lavaggio del cervello, che la luna di miele a Las Vegas era «divertente» e «diversa dalle altre» (una in Italia con mio padre, l’altra alle Galápagos con il secondo marito). Quando mia madre usava la parola «divertente» bisognava stare in guardia, così le ho ricordato la scuola di vela dove mi aveva spedito a dodici anni; lei ha ammesso che in quel caso avevo ragione, ma non vedeva cosa c’entrasse. Ecco come se la raccontano gli adulti – o perlomeno mia madre.

Quando la mamma tornò, io e Gillian stavamo pranzando, in qualche modo. Erano quasi le due. Gillian stava al tavolo di cucina e faceva le parole crociate del «New York Times», cosa che con la mamma in casa ci era vietata perché, come lei diceva spesso, era l’unico piacere su cui potesse contare nella vita. Io stavo mangiando un uovo fritto. In realtà sarei dovuto essere al lavoro nella sua galleria d’arte contemporanea, ma John Webster, che di fatto la gestiva, aveva saggiamente deciso di tener chiuso: primo, la proprietaria era felicemente assente, presa dalle inimmaginabili attività di una cinquantatreenne in luna di miele a Las Vegas, e secondo era luglio e nessuno ci metteva piede da giorni. Così John se n’era andato a Amagansett da amici e io potevo fare quello che mi pareva per il resto della settimana. È ovvio che non le avrei detto niente di questa interruzione: lei era convinta che, in qualsiasi momento, qualcuno potesse entrare a comprare un bidone della spazzatura decoupato con le pagine di varie edizioni della Bibbia, della Torah e del Corano (per 16.000 dollari). Mia madre ha aperto la galleria due anni fa, dopo il secondo divorzio: voleva «fare» qualcosa, diceva, e uno poteva pensare che volesse lavorare, ma invece no: «fare» voleva dire comprare un mucchio di vestiti nuovi (costosissimi e «decostruiti», cioè sbrindellati o con le lampo nei posti più inutili), perché i galleristi devono sembrare galleristi, nonché pranzare in costosissimi ristoranti con curatori di musei e esperti del mercato, e se ci scappa anche con un artista in carne e ossa. Mia madre, fino al secondo matrimonio, aveva fatto con successo la redattrice di libri illustrati, ma a quanto pare se si lascia un lavoro regolare è impossibile ricominciare. «Ah, non potrei mai rifarlo,» le ho sentito dire più di una volta «è così grigio, e se c’è una cosa di cui il mondo non ha bisogno sono i libri strenna». Quando le ho chiesto se pensava che il mondo avesse bisogno di un bidone decoupato con le pagine strappate dalla Bibbia ha risposto di no, e era esattamente quella la ragione che lo rendeva arte. Al che ho ribattuto, be’, se il mondo non ha bisogno di libri strenna allora dev’essere arte anche quella – dove sta la differenza? La differenza, ha risposto lei, sta nel fatto che il mondo crede di aver bisogno dei libri illustrati e li apprezza, mentre non crede di aver bisogno di bidoni decoupati.

Dunque, mentre Gillian e io eravamo in cucina, lei col cruciverba e io con l’uovo fritto, abbiamo sentito scattare la serratura – prima in un senso e poi nell’altro, perché ci eravamo dimenticati di chiudere a chiave –, e in quei due secondi ci siamo guardati senza aprire bocca. Anche mio padre aveva le chiavi e sarebbe stato logico – be’, diciamo più logico – che fosse lui e non mia madre, ma per qualche ragione Gillian e io abbiamo capito subito che era lei. L’abbiamo sentita trascinare dentro la valigia con le rotelle (non viaggia mai leggera, soprattutto quando va in luna di miele), che poi si è rovesciata; la mamma ha buttato per terra i libri, i giornali e le altre scorie che in sua assenza si erano accumulati sul divano, poi è crollata a sedere e ha detto in tono piuttosto dimesso e contrito: «Merda».

Noi due siamo rimasti in un silenzio attonito. Forse se fossimo rimasti zitti e immobili lei avrebbe potuto invertire il movimento – alzarsi dal divano, rimetterci tutto sopra, raddrizzare la valigia, trascinarla fuori dalla porta, riprendere l’aereo per Las Vegas e continuare la luna di miele.

Ovviamente non è andata così. Dopo poco si è alzata e è venuta in cucina.

«Oh Signore mio,» ha detto vedendoci «che ci fate voi qui?».

«Che ci fai tu qui?» ha chiesto Gillian.

Mia madre è andata al lavello e con sguardo di disapprovazione ha fissato i piatti e i bicchieri sporchi. Ha aperto l’armadietto dei bicchieri ma non ne ha trovato neanche uno, perché io e Gillian preferiamo sciacquarli lì per lì piuttosto che lavarli, metterli a posto e poi riusarli. «Santo cielo,» ha detto «voglio solo un bicchier d’acqua. Un semplice bicchier d’acqua! Nient’altro. Ma anche questo, come tutto quello che abbia mai desiderato, mi è negato». Gillian si è alzata e nel lavello ha trovato un bicchiere quasi pulito, lo ha sciacquato e lo ha riempito dal rubinetto. «Ecco» ha detto.

«Che Dio ti benedica» ha risposto mia madre. Non è una persona religiosa e sentirla usare questo linguaggio mi ha messo in ansia. O meglio, più in ansia. «Va be’» ha detto Gillian tornando a sedere.

«Va be’» ha detto Gillian tornando a sedere.

Mia madre è rimasta accanto al lavello bevendo l’acqua in modo curioso, a piccoli sorsi, come un uccello. Ho letto da qualche parte che gli uccelli non deglutiscono e quindi, per bere, devono inclinare la testa all’indietro, e se lo fanno durante un acquazzone affogano – anche se per me resta un mistero perché un uccello dovrebbe restare col becco aperto e la testa all’indietro durante un acquazzone. Bevendo in quello strano modo mia madre ha svuotato il bicchiere e, con gesti che mi sono parsi molto plateali, lo ha sciacquato e messo nella lavastoviglie, impresa non troppo facile perché ovviamente straripava di piatti (sporchi).

«Che è successo?» ha chiesto Gillian.

«Che è successo?» ha detto la mamma.

«Sì» ha detto Gillian. «Perché sei a casa? Dov’è Rogers?». Ci piaceva, a me e a mia sorella, chiamare l’ultimo marito di mia madre per cognome, anche se lei ci aveva esortati più volte a chiamarlo Barry.

«Non so né mi importa di sapere dove sia quell’uomo» ha risposto. «Spero di non rivederlo mai più». «Be’, meglio scoprirlo subito» ha detto Gillian. «O forse sarebbe stato ancora meglio scoprirlo prima di sposarlo. O prima di accettare di sposarlo. O anche prima di incontrarlo».

«Gillian! Per favore» ha esclamato mia madre.

«Ghillian» ha detto Gillian.

«Come?».

«Io mi chiamo Ghillian» ha ribadito Gillian. «Il mio nome è stato pronunciato in modo scorretto per troppo tempo. Ho deciso che d’ora in poi risponderò soltanto a chi mi chiamerà Ghillian. Rainer Maria dice che dare un nome a un bambino e pronunciarlo in modo scorretto è una subdola forma di maltrattamento».

«Oh be’,» ha fatto mia madre «ti assicuro che non è nel mio stile: se volessi maltrattarti non lo farei certo in modo subdolo». Poi ha guardato me. «E tu, perché non sei alla galleria?».

«Oggi John non aveva bisogno di me».

«Non ci siamo capiti» ha detto. «John non ha mai bisogno di te. Tu non vai alla galleria perché c’è bisogno di te: ci vai perché io ti pago, in modo che tu abbia un’occupazione estiva, impari il valore dei soldi e cosa significa avere delle responsabilità».

«Ci vado domani» ho risposto.

Si è seduta al tavolo e ha sfilato dalle mani di Gillian il cruciverba fatto a metà. «Per favore togli quel piatto» ha detto poi a me. «Non c’è nulla di più rivoltante di un piatto coi resti di uovo fritto». Mia madre è molto esigente riguardo a ciò che mangiano le persone intorno a lei: per esempio non sopporta di veder mangiare una banana, a meno che non sia completamente sbucciata e tagliata in graziosi bocconi.

Ho sciacquato il piatto e l’ho messo nella lavastoviglie. Ho messo il detersivo e l’ho avviata. Era un gesto troppo smaccato perché qualcuno lo lodasse, ma ha avuto l’apparente effetto di tranquillizzare mia madre, che ha sospirato e ha poggiato la testa sulle braccia incrociate sul tavolo.

«Che è successo?» ha chiesto Gillian.

La mamma non ha risposto. Mi sono accorto che piangeva. Gillian si è alzata, si è chinata su di lei e l’ha abbracciata mentre singhiozzava.

 

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