Descrizione
1
Una volta, mia nonna mi disse che l’amore e l’odio sono lo stesso sentimento vissuto in circostanze diverse. La passione è la stessa. Il dolore è lo stesso. La strana sensazione che ribolle nel petto? La stessa. Non le credetti finché non incontrai Baron Spencer, e lui divenne il mio incubo.
Poi, il mio incubo divenne la mia realtà.
Pensai di essergli sfuggita. Fui perfino abbastanza stupida da credere che si fosse dimenticato per sempre della mia esistenza.
Ma quando ritornò nella mia vita, mi colpì con più brutalità di quanta potessi mai immaginare.
E, proprio come una tessera del domino, io crollai.
Dieci anni prima
Ero entrata nella villa solo una volta prima, quando due mesi fa la mia famiglia era arrivata a Todos Santos. Quel giorno, ero rimasta inchiodata sul posto su quello stesso pavimento di legno d’ebano, che non scricchiolava mai.
Quella prima volta, mia mamma mi aveva dato una gomitata nelle costole. «Sai che questo è il pavimento più duro al mondo?»
Mancò di precisare che apparteneva all’uomo dal cuore più duro del mondo.
Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire per quale motivo gente con così tanti soldi li spendesse per una casa tanto deprimente. Dieci camere da letto, tredici bagni, una palestra interna e una scalinata teatrale. C’erano tutti i confort che i soldi potessero comprare… e tutto, a eccezione del campo da tennis e della piscina di venti metri, era nero. Non appena si varcava la soglia dell’imponente portone di ferro borchiato, il nero soffocava qualsiasi sensazione piacevole si riuscisse a provare.
Il designer d’interni doveva essere un vampiro medievale, a giudicare dai colori freddi e senza vita dell’arredamento e dai giganti lampadari in ferro che penzolavano dai soffitti. Perfino il pavimento era scurissimo, così tanto da dare l’impressione di essere sospesi sull’orlo di un abisso, a una frazione di secondo dalla caduta nel nulla.
Una casa che contava dieci camere da letto, in cui abitavano solo tre persone, due delle quali non erano quasi mai a casa, e gli Spencer avevano comunque deciso di far alloggiare la mia famiglia nell’appartamento per i domestici accanto al garage. Era più grande della baracca di compensato che avevamo affittato a Richmond, in Virginia; tuttavia, fino a quel momento, non mi aveva dato una buona impressione.
Ora non più.
Tutto ciò che riguardava la villa degli Spencer era progettato per intimidire, per dimostrare ricchezza e opulenza, eppure anche povertà in moltissimi modi. Pensai che non potevano essere persone felici.
Mi fissai le scarpe, delle lacere Vans bianche su cui scarabocchiavo dei fiori colorati per nascondere il fatto che fossero contraffatte e deglutii, sentendomi insignificante persino prima che lui cominciasse a sminuirmi. Persino prima di conoscerlo.
«Mi chiedo dove sia» bisbigliò la mamma.
Mentre eravamo in piedi nell’ingresso, fui percorsa da un brivido al rumore dell’eco che rimbombava tra le pareti spoglie. La mamma voleva chiedere se potevamo essere pagati due giorni prima, perché dovevamo comprare le medicine per Rosie, la mia sorella minore.
«Ho sentito qualcosa provenire da quella stanza». Indicò una porta sul lato opposto all’ingresso con il soffitto a volta. «Tu vai a bussare. Io aspetterò in cucina».
«Io? Perché io?»
«Perché» disse, inchiodandomi con uno sguardo che mi trafisse la coscienza, «Rosie non sta bene e i genitori del ragazzo sono fuori città. Tu hai la sua età, ti ascolterà».
Feci come mi disse, non per la mamma, ma per Rosie, senza comprenderne le conseguenze. Quello che accadde nei minuti seguenti mi costò tutto il mio ultimo anno di liceo e fu la ragione per cui, a soli diciotto anni, venni strappata via dalla mia famiglia.
Vicious pensò che conoscessi il suo segreto.
Non era così.
Pensò che avessi scoperto di cosa stava discutendo in quella stanza, quel giorno. Non ne avevo la minima idea.
Ricordo solo che trascinai i piedi verso la soglia dell’ennesima porta scura, le mie nocche erano sospese a pochi centimetri da essa, quando sentii la voce profonda e arrochita di un uomo anziano.
«Conosci la procedura, Baron».
Un uomo. Probabilmente un fumatore.
«Mia sorella mi ha detto che le stai dando problemi. Di nuovo», l’uomo strascicò le parole, prima di alzare la voce e sbattere il palmo della mano contro una superficie dura. «Ne ho abbastanza del tuo atteggiamento irrispettoso con lei».
«Fottiti». Sentii la voce controllata di un uomo più giovane. Sembrava… divertito? «E che si fotta anche lei. Aspetta, è per questo che sei qui, Daryl? Vuoi anche tu un pezzo di tua sorella? La buona notizia è che è sempre disponibile, se hai i verdoni per pagarla».
«Tieni a bada quella lingua, stronzetto». Uno schiaffo. «Tua madre sarebbe fiera di te».
Silenzio e poi: «Di’ un’altra parola su mia madre e ti darò una vera ragione per metterti quelle protesi dentarie di cui parlavi con papà». La voce dell’uomo più giovane trasudava veleno, il che mi fece pensare che forse non era così giovane come pensava la mamma.
«Stammi alla larga» la voce più giovane ammonì. «Posso spaccarti il culo, ora. In effetti, sono piuttosto tentato di farlo. Ogni. Fottutissima. Volta. Non ne posso più delle tue stronzate».
«E cosa diavolo ti fa pensare di avere una scelta?» L’uomo più grande ridacchiò cupamente.
La sua voce mi arrivò sin nelle ossa, come un veleno che mi divorava lo scheletro.
«Non hai sentito?» Replicò il più giovane a denti stretti. «Mi piace battermi. Mi piace il dolore. Forse perché mi rende molto più facile accettare il fatto che un giorno ti ucciderò. E lo farò, Daryl. Un giorno, io ti ucciderò».
Rimasi a bocca aperta, troppo sconvolta per muovermi.
Sentii lo schiocco rumoroso di un ceffone, poi qualcuno che ruzzolava, portandosi dietro degli oggetti mentre cadeva sul pavimento.
Stavo per scappare, visto che era ovvio che quella conversazione non era destinata alle mie orecchie, ma non ne ebbi il tempo. Prima che potessi capire cosa stesse succedendo, la porta si spalancò e io mi trovai faccia a faccia con un ragazzo all’incirca della mia età. Dico un ragazzo, eppure non c’era niente di infantile in lui.
L’uomo più vecchio stava in piedi dietro di lui, ansimava con forza ed era ricurvo con le mani poggiate contro una scrivania. C’erano dei libri sparpagliati intorno ai suoi piedi, e aveva un labbro tagliato e sanguinante.
La stanza era una biblioteca. Scaffali di noce che dal pavimento si elevavano fino al soffitto, pieni di libri con la copertina rigida, si susseguivano lungo le pareti. Provai una fitta al petto, perché per qualche ragione sapevo che mai e in alcun modo mi sarebbe stato concesso di entrarvi.
«Ma che cazzo?» Sibilò l’adolescente, ribollente di rabbia. Assottigliò gli occhi, e mi sentii come se ci fosse un fucile puntato dritto verso di me.
Quanti anni poteva avere? Diciassette? Diciotto? Il fatto che avessimo più o meno la stessa età riusciva in qualche modo a peggiorare la situazione. Abbassai la testa, mentre le mie guance s’infiammavano con abbastanza calore da poter bruciare tutta la casa.
Gli si contrasse la mascella. «Stavi ascoltando?»
Scossi la testa freneticamente per dire di no, ma era una bugia. Ero sempre stata una pessima bugiarda.
«Non ho sentito niente, lo giuro». Mi strozzai con le mie stesse parole. «Mia mamma lavora qui, la stavo cercando». Un’altra bugia. Non ero mai stata una fifona. Ero sempre stata quella coraggiosa. Ma in quel momento non mi sentivo tanto coraggiosa. Dopotutto, non avrei dovuto essere lì, in casa sua, e decisamente non avrei dovuto ascoltare la loro discussione.
Il ragazzo si avvicinò di un passo e io indietreggiai. I suoi occhi erano morti, ma le sue labbra erano rosse, piene e molto, molto vive. Questo ragazzo mi spezzerà il cuore se glielo permetterò. La voce arrivò da qualche parte nella mia testa e quel pensiero mi scioccò, perché non aveva alcun senso. Non mi ero mai innamorata prima ed ero troppo in ansia perfino per notare il colore dei suoi occhi o il taglio di capelli, figuriamoci per concepire l’idea di provare qualsiasi sentimento per quel tipo.
«Come ti chiami?» Chiese. Aveva un profumo delizioso, un’essenza mascolina di giovane uomo, sudore dolce e ormoni aspri, e il lieve sentore di biancheria pulita, risultato di uno dei numerosi doveri della mia mamma.
«Emilia». Mi schiarii la gola e tesi una mano. «I miei amici mi chiamano Millie. Puoi chiamarmi così anche tu».
La sua espressione non lasciava trasparire neanche la minima emozione. «Cazzo, sei finita, Emilia». Strascicò il mio nome, prendendosi gioco del mio accento del Sud senza degnare nemmeno di uno sguardo la mia mano tesa.
La ritirai velocemente, con le guance nuovamente in fiamme per l’imbarazzo.
«Nel cazzo di posto sbagliato, nel cazzo di momento sbagliato. La prossima volta che ti trovo da qualche parte in casa mia, portati una sacca per cadaveri, perché non ne uscirai viva». Si precipitò oltre me, urtandomi la spalla con il suo braccio muscoloso.
Mi strozzai con il mio stesso respiro. Il mio sguardo saettò verso l’uomo più vecchio e i nostri occhi si incontrarono. Lui scosse la testa e sogghignò in un modo che mi fece venire voglia di raggomitolarmi e scomparire. Il sangue gli gocciolava da un labbro sullo stivale di pelle, nero come la sua giacca logora da motociclista. E comunque, cosa ci faceva in un posto del genere? Lui si limitò a fissarmi, senza fare alcun tentativo di pulire via il sangue.
Mi voltai e corsi via mentre sentivo il vomito, che stentavo a trattenere, bruciarmi in gola.
Non c’è bisogno di dire che quella settimana Rosie dovette fare a meno delle sue medicine e che i miei genitori vennero pagati non un minuto prima della data prevista.
Era stato due mesi fa.
Oggi, mentre attraversavo la cucina e mi inerpicavo per la scalinata, non avevo altra scelta.
Bussai alla porta della camera da letto di Vicious. La sua stanza era al secondo piano, all’estremità dell’ampio pianerottolo ricurvo, la porta che affacciava sulla scalinata in pietra che fluttuava in quella villa così simile a una grotta.
Non mi ero mai neanche avvicinata alla stanza di Vicious e avevo sperato di non doverlo mai fare. Sfortunatamente, mi avevano rubato il libro di aritmetica. Chiunque avesse fatto irruzione nel mio armadietto, lo aveva ripulito di tutta la mia roba, sostituendola con dell’immondizia. Nell’attimo in cui avevo aperto l’anta dell’armadietto, si erano riversate fuori delle lattine vuote, delle salviettine struccanti e degli involucri di preservativi.
Solo l’ennesimo scherzo, non particolarmente ingegnoso ma efficace, architettato dagli studenti della All Saints High per ricordarmi che, da quelle parti, non ero altro che una dozzinale cameriera. Ormai ero così abituata a quel tipo di trattamento che arrossii a malapena. Quando gli occhi di tutti i presenti sfrecciarono verso di me, mentre nel corridoio si sollevavano risate e ghigni di scherno, alzai il mento in su e marciai dritta verso la lezione successiva.
La All Saints High era una scuola piena di tutt’altro che santi, ragazzini viziati e super privilegiati. Una scuola che non era posto per te se mancavi di vestirti e comportarti in un certo modo.
Per fortuna, Rosie si era integrata meglio di me. Ma, col mio accento del Sud, lo stile eccentrico e con uno dei ragazzi più popolari della scuola, Vicious Spencer appunto, che mi odiava a morte, io non mi inserivo.
A peggiorare la situazione si aggiungeva il fatto che non volevo inserirmi. Non ero impressionata da quei ragazzi. Non erano gentili, né accoglienti e neppure particolarmente intelligenti. Non possedevano nessuna delle qualità che cercavo in un amico.
Ma se volevo scappare da quel posto prima o poi, dovevo necessariamente avere quel libro.
Bussai tre volte alla porta di mogano della camera da letto di Vicious. Mentre con le dita mi tormentavo il labbro inferiore, cercai di inspirare quanto più ossigeno potevo, ma non servì per niente a calmare le pulsazioni palpitanti nel mio collo.
Ti prego, dimmi che non ci sei…
Ti prego, non fare lo stronzo…
Ti prego…
Un rumore tenue filtrò dalla fessura sotto la porta e il mio corpo si irrigidì.
Una risatina.
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