Descrizione
Capitolo 1
Sei giorni prima
Sadie Winters si accovacciò per passare inosservata davanti all’ingresso delle cucine e sgattaiolò dietro l’angolo, posò lo zaino a terra ed estrasse la sigaretta dalla tasca della giacca. Aveva scoperto quel posto, dove in passato si trovava l’entrata di servizio, due mesi prima. Nemmeno un’aula si affacciava su quel lato dell’ala che ospitava la mensa.
“Solo un minuto”, pensò, raddrizzando la sigaretta che si era piegata leggermente dentro alla tasca. Aveva soltanto bisogno di un attimo di pace prima di correre verso la lezione successiva e scusarsi per il ritardo. Un po’ di riposo dal caos che regnava nella sua testa.
Riparò la fiamma dell’accendino dal vento di fine marzo, giurando che quella sarebbe stata l’ultima della sua vita. Una volta, mentre faceva la fila alla mensa, Sadie aveva sentito una delle ragazze più grandi affermare che non riusciva ad affrontare l’ora di matematica senza prima fumare una sigaretta. Aveva detto che la rilassava. Così, qualche giorno prima Sadie ne aveva sfilata una dal suo zainetto e aveva provato. Sapeva che in realtà non la rilassava affatto. Sapeva di inalare monossido di carbonio, che riduceva l’apporto di sangue ai muscoli. Per qualche secondo, però, ebbe l’impressione che la calmasse sul serio.
Aspirò con avidità dalla sigaretta, riempiendo i polmoni da tredicenne di fumo, mentre ricordava il suo primo tiro e la tosse convulsa che l’aveva seguito. Immaginò il suo corpo come un barattolo di vetro trasparente pieno di una nebbia densa. Non voleva fumare. Non voleva essere dipendente dalle sigarette, né da qualsiasi altra cosa, ma le pillole ormai non facevano più effetto. All’inizio erano riuscite a calmarla, ad anestetizzarla, a placare i suoi pensieri distruttivi. Avevano smussato gli spigoli della rabbia, come ricoprendoli di uno strato di plastica con le bolle. Non erano scomparsi, ma facevano meno male. Adesso non più. Le punte aguzze foravano la nebbia, e l’oscurità, più fitta che mai, era tornata ad avvolgerla.
E adesso la obbligavano a parlare con un dannato psicologo dei suoi “problemi”, perché i suoi genitori credevano che le avrebbe fatto bene. Speravano che non le venisse un’improvvisa voglia di sfogarsi con qualche persona esterna alla famiglia. Sadie aveva ascoltato la voce dolce e comprensiva dell’uomo che la rassicurava sulla propria discrezione; le frequenti raccomandazioni con cui le ricordava che a lui poteva dire tutto. Come se fosse vero. Soprattutto dopo che le aveva messo davanti il foglio di carta che le aveva confermato di non potersi fidare di nessuno.
“Maledizione”, pensò, buttando a terra la cicca. Non avrebbe permesso loro di farle questo. Si era tenuta tutto dentro troppo a lungo.
Lei non avrebbe dovuto sapere che cosa era successo, ne era consapevole. Erano convinti di averglielo tenuto nascosto, ma non era così. Altra distanza si aggiungeva a quella che già la separava dalla sua famiglia. Un’altra questione da cui avevano voluto escluderla. L’ennesima prova, l’ultima di una lunga lista, che non faceva parte del gruppo.
Sadie l’aveva sempre sentito, l’aveva sempre saputo. Era l’opposto di sua sorella, dell’adorabile Saffie che illuminava ogni stanza di un chiarore angelico quando il suo bel volto faceva capolino dalla porta. Sadie non possedeva la sua grazia innata, né il suo sorriso disarmante. E Saffie, ovviamente, era sempre nel giusto, impeccabile, a prescindere da ciò che faceva.
Asciugò le lacrime di rabbia prima ancora che scendessero.
Non avrebbe pianto. Non avrebbe dato loro quella soddisfazione. Avrebbe fatto come al solito. Avrebbe nascosto la testa dentro al guscio e avrebbe finto che non le importasse. Non erano accorsi in suo aiuto. Li aveva pregati, implorati di ritirarla dalla Heathcrest e permetterle di frequentare una scuola più vicina a casa. Detestava quell’ambiente rigido ed elitario che guardava con sospetto qualsiasi manifestazione di individualità, che soffocava la creatività e la libertà di espressione per promuovere il conformismo. Quel posto era una prigione. I suoi, però, avevano respinto la sua richiesta. Le loro figlie non avrebbero mai frequentato la scuola pubblica locale. La Heathcrest l’avrebbe formata nel carattere. In quell’istituto avrebbe fatto conoscenze che le sarebbero tornate utili per il resto della vita. Alleati su cui avrebbe potuto fare affidamento. Sadie, però, non voleva conoscenze e alleati. Voleva degli amici. Amici normali.
Era per questo che, quando i suoi erano andati in soccorso di Saffie, per lei era stato un duro colpo. I genitori trovavano sempre nuovi modi per farla sentire inferiore e spesso non se ne accorgevano nemmeno.
“Ora basta, però”, pensò Sadie, determinata. Quella sera li avrebbe chiamati e li avrebbe costretti ad ascoltarla. Possedeva un’arma infallibile, che poteva usare a proprio vantaggio. Sapere è potere.
Girò l’angolo dell’edificio di mattoni e vide una figura conosciuta andarle incontro.
Aggrottò la fronte. «Che cosa ci…?».
La domanda fu interrotta da un pugno che le si abbatté sulla tempia sinistra. La vista le si annebbiò e si sentì precipitare verso il suolo.
Che stava succedendo? Che cosa aveva fatto?
Non c’era motivo.
Le assestò un secondo colpo, stavolta sulla nuca, con il piede. Altri calci si abbatterono sul fianco sinistro, mentre cercava invano di ripararsi. La sua mente sbigottita tentava di unire i puntini, ma una potente pedata sulle reni scatenò un’esplosione di dolore che si riverberò per tutto il suo corpo. Sadie cercò di difendersi e di rimanere aggrappata con il pensiero a quell’unica domanda. Doveva esserci un errore, gridava dentro alla sua testa, mentre i calci continuavano a piovere su di lei.
Tentò di rotolare di lato, ma un colpo al fianco sinistro le riempì la bocca di un sapore metallico. Sputò, prima che il liquido le scivolasse di nuovo nella gola. A pochi centimetri dalla sua bocca si formò una piccola chiazza rossa.
La vista stava cominciando ad affievolirsi sul lato sinistro.
La paura la invase, vedendo che i calci e i pugni non accennavano a smettere, e ben presto ogni angolo del suo corpo cominciò a bruciare in modo insopportabile. La confusione era scomparsa, lasciandosi dietro soltanto strazio e terrore.
Sadie gridò quando le fitte le trapassarono lo stomaco come coltelli, affondando nei suoi organi, facendoli a fette, bianche scariche accecanti di dolore che la lasciarono senza fiato. Ormai non vedeva più dall’occhio sinistro e anche il destro stava per essere inghiottito dal buio.
«Ti prego…», implorò, cercando di aggrapparsi alla luce.
Poi, un ultimo colpo alla testa e il mondo scomparve del tutto.
Capitolo 2
«Bryant, mi stai prendendo in giro?», esclamò Kim, lanciandogli uno sguardo incredulo dal sedile del conducente. Avevano appena finito di parlare con una donna che aveva cambiato idea sul fatto di testimoniare in tribunale contro il marito violento. Purtroppo, le loro doti persuasive non erano bastate per convincerla a tornare sui suoi passi.
Avevano passato settimane a ripeterle che era la decisione giusta, che la sua testimonianza l’avrebbe spedito in galera, ma era bastata una visita della madre dell’uomo per vanificare tutti i progressi fatti.
Nel giro di qualche ora il marito sarebbe tornato da lei e Kim era pronta a scommettere che la signora Worley prima di sera avrebbe fatto l’inventario dei lividi. Per fortuna, non c’erano minori coinvolti; in quel caso Kim non avrebbe esitato a contattare i servizi sociali. Allo stato attuale, il massimo che avrebbe potuto fare, se i vicini avessero chiamato riferendo episodi di violenza domestica, sarebbe stato classificare la segnalazione come urgente.
Pur essendo consapevole di aver già tentato tutto il possibile, aveva voglia di fare inversione e tornare di nuovo verso la villetta a schiera per provare un’ultima volta. Che rabbia quando riuscivano a farla franca!
«Mi piacerebbe aver voglia di scherzare, ma la risposta è no, sono serio», rispose Bryant.
«Saremo anche i più vicini, però non sono sicura che…».
«Ascolta, capo, c’è una tredicenne sul tetto di una scuola che minaccia di buttarsi. Credo che vogliano soltanto una pattuglia sul posto prima possibile».
«Questo è ovvio, ma sanno chi sono?», esclamò lei, accelerando e dirigendosi verso Hagley.
La Heathcrest Academy era un istituto privato misto che forgiava i cuori e le menti dei ragazzi ricchi e privilegiati della Black Country e dintorni, dall’età di cinque anni fino all’università.
Incastonata fra il paese dormitorio di West Hagley e le Clent Hills, la scuola sorgeva in una pittoresca zona alle soglie della periferia di Stourbridge.
Kim non aveva mai conosciuto di persona un allievo dell’istituto. I diplomati della Heathcrest, a quanto pareva, non confluivano nella polizia.
Prendendo la strada a due corsie che correva parallela a Manor Way e svoltando su Hagley Wood Lane prevedeva di arrivare sul posto in pochi minuti. Quello che avrebbe detto, una volta lì, era un’altra questione. Kim non era rinomata per il tatto, la sensibilità o le doti diplomatiche; giunse dunque alla conclusione che per richiedere il suo intervento dovessero essere proprio disperati.
Per gestire una situazione simile, la persona in assoluto più indicata era un negoziatore della polizia. Al secondo posto venivano coloro che stavano studiando per diventarlo, seguiti dai giovani che aspiravano alla qualifica. Poi c’erano gli psicologi e, in fondo, persino dopo la gente comune, si posizionava lei.
«Ti terrò la borsetta mentre andrai a parlare con la ragazzina», esclamò Kim oltrepassando il cartello bianco e nero che segnalava la fine del limite di velocità.
Ingranò le marce in rapida successione e in tre secondi raggiunse i novanta all’ora.
«Quando arriveremo probabilmente sarà già scesa», commentò Bryant. «Sono sicuro che abbiano personale qualificato all’interno della scuola».
“Eccome”, pensò Kim, rallentando per affrontare una curva seguita da un piccolo spartitraffico. Qualche mese prima aveva letto un articolo a proposito del progetto milionario della scuola per la creazione di una nuova ala che avrebbe ospitato l’infermeria. Aveva avuto l’impressione che l’istituto disponesse di strutture mediche migliori di quelle delle cittadine limitrofe.
«Alla prossima a sinistra», disse Bryant nel momento stesso in cui lei inserì la freccia.
Imboccarono una tortuosa stradina asfaltata sotto alle fronde spoglie dei salici che sorgevano ai due lati della carreggiata e univano in alto i rami a formare una lunga galleria.
Al termine, la strada si restringeva trasformandosi in un vialetto ricoperto di ghiaia. Kim ignorò il suono del pietrisco che colpiva la fiancata dell’auto di Bryant mentre sfrecciava in direzione dell’edificio in stile Tudor con elementi giacobiani.
«Tempo?», chiese.
«Quattro minuti», rispose Bryant, che aveva tenuto il conto da quando avevano ricevuto la chiamata.
Alla destra dell’edificio sorgeva una torre imponente.
«Bryant…», disse Kim, mentre si avvicinavano al palazzo.
«No, non vedo nessuno lassù», ribatté lui. Un secondo dopo, Kim inchiodò sulla ghiaia, a qualche metro di distanza da un capannello di persone intente a guardare verso il suolo.
«A quanto pare avevi ragione, Bryant», disse lei, incamminandosi verso la schiera di volti atterriti.
La ragazza era scesa, alla fine.
Recensioni
Ancora non ci sono recensioni.