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You like it darker. Salto nel buio

Author: Stephen King

20,80

«L’immaginazione ha fame e ha bisogno di essere nutrita» scrive Stephen King nella postfazione di questa magnifica raccolta di dodici racconti che ci calano nei meandri più oscuri dell’esistenza, sia metaforicamente che letteralmente. Storie sul destino, la mortalità, la fortuna e le pieghe della realtà dove tutto può succedere, ricche e avvincenti come i suoi romanzi. King, da oltre mezzo secolo, un maestro della forma, scrive per provare «l’euforia di abbandonare la quotidianità» e in You Like It Darker i lettori sentiranno la medesima esaltazione. Due bastardi di talento racconta il segreto, a lungo nascosto, che lega per sempre due amici divenuti famosi. Nell’Incubo di Danny Coughlin, un’intuizione senza precedenti ribalta decine di vite, quella del protagonista in maniera più catastrofica. In Serpenti a sonagli, sequel di Cujo, un vedovo in lutto si reca in Florida in cerca di conforto e riceve invece un’eredità inaspettata. Ne I sognatori, un taciturno veterano del Vietnam risponde a un annuncio di lavoro e scopre che ci sono alcuni angoli dell’universo che è meglio lasciare inesplorati. L’Uomo delle Risposte si chiede se la preveggenza sia una fortuna o meno e ci ricorda che una vita segnata da una tragedia insopportabile può ancora essere salvata. Dal leggendario Maestro della narrativa, una straordinaria raccolta di racconti iconici, che ci conferma la sua capacità insuperabile di sorprendere, stupire e portare terrore e conforto insieme. Preparatevi a fare un salto nel buio.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

21 Maggio 2024

ISBN

978-8820079437

Lingua

Italiano

Formato

Copertina flessibile

COD: 22396 Categoria: Tag: Product ID: 22396

Descrizione

Due bastardi di talento 

1 

Mio padre-il mio celebre padre-è morto nel 2023, all’età di novant’anni. Due anni prima di passare a miglior vita aveva ricevuto una email da una giornalista freelance di nome Ruth Crawford, che chiedeva di poterlo intervistare. Ero stato io a leggergliela, come facevo per la sua corrispondenza personale e d’affari, perché a quel punto si era già sbarazzato di tutti i suoi dispositivi elettronici: prima il computer fisso, poi il portatile e infine l’adorato cellulare. La sua vista era rimasta buona fino alla fine, ma sosteneva che guardare lo schermo dell’iPhone gli faceva venire l’emicrania. Al ricevimento dopo il funerale, il dottor Goodwin mi disse che pro­babilmente papà aveva sofferto di una serie di piccoli ictus, culminati in quello che era risultato fatale. 

Più o meno nello stesso periodo in cui aveva rinunciato a usare il cellulare – cinque o sei anni prima che morisse – io avevo lasciato in anticipo il mio impiego come sovrintendente scolastico della contea di Castle e avevo cominciato a lavorare a tempo pieno per mio padre. C’erano un bel po’ di cose da sbrigare. Aveva una governante in casa, però la sera e durante i fine settimana ero io ad assumerne i compiti. Lo aiutavo a vestirsi la mattina e a spogliarsi la sera. Toccava quasi sempre a me cucinare e pulire quando, nel cuore della notte, non faceva in tempo a raggiungere il bagno. 

Aveva anche un tuttofare, ma pure Jimmy Griggs era prossimo all’ottantina, e così mi ero ritrovato a sbrigare quasi tutti gli incarichi che lui non riusciva più a svolgere – per esempio, concimare le preziose aiuole di papà o liberare gli scarichi quando si intasavano. Ritirarsi in una struttura assistita era fuori que­stione, anche se mio padre avrebbe potuto permetterselo senza problemi, dopo aver pubblicato una decina di bestseller nel giro di quarant’anni che gli avevano permesso di mettere da parte un bel gruzzolo. 

L’ultimo dei suoi «entusiasmanti mattoni» (Donna Tartt, New York Times) era uscito nelle librerie quando papà aveva ottantadue anni. Si era prestato al solito giro di interviste, aveva posato per il solito ritratto fotografico e poi aveva annunciato il suo ritiro. Con la stampa era stato elegante come sempre, mo­strando il suo «tipico senso dell’umorismo» (Ron Charles, Washington Post). A me invece aveva detto: «Se Dio vuole, mi sono liberato di tutte queste stronzate». Fatta eccezione per la chiacchierata informale con Ruth Crawford, non aveva rilasciato più interviste. Erano in molti a chiedergliele, ma si era sempre rifiutato; affermava di aver detto tutto quello che aveva da dire, incluse diverse cose che probabilmente avrebbe fatto meglio a tenere per sé. 

«Se rilasci troppe interviste» mi disse un giorno «scoprirai che avresti fatto meglio a tapparti la bocca almeno un paio di volte. Ovviamente, quello che avresti dovuto tenere per te finisce per essere citato a ogni minima occasione, e più diventi vecchio più è probabile che succeda.»

Eppure i suoi libri continuavano a vendere, e i suoi affari a prosperare di conseguenza. Esaminavo insieme a lui le proposte di rinnovo contrattuale, le nuove copertine e le opzioni per il cinema o per le serie televisive, e gli leggevo puntualmente tutte le proposte di intervista da quando non era più stato in grado di farlo per conto proprio. Rispondeva sempre di no, e in un primo momento lo aveva fatto anche con Ruth Crawford. 

«Scrivile la solita risposta, Mark: sono lusingato, ma devo declinare. Grazie lo stesso.» Aveva avuto una lieve esitazione, però, perché quella richiesta era leggermente diversa dalle altre. 

Ruth Crawford voleva scrivere un articolo su mio padre e sul suo vecchio amico David «Butch» LaVer­diere, che era morto nel 2019. Io e papà eravamo andati al suo funerale sulla West Coast, noleggiando un Gulfstream. Papà era sempre molto attento a come spendeva i suoi soldi- non tirchio, ma oculato-, e il costo esorbitante di quel viaggio andata e ritorno la diceva lunga su quali fossero i suoi sentimenti per l’uomo che, quand’ero ragazzino, chiamavo zio Butch. L’affetto che lo legava a Butch era rimasto immutato, anche se mio padre non lo vedeva di persona da dieci anni, se non di più. 

A papà fu chiesto di fare un discorso al funerale. Ero convinto che avrebbe declinato l’offerta – la sua idiosincrasia per le luci della ribalta si estendeva a qualunque circostanza, non limitandosi alle interviste-, e invece decise di parlare. Non salì sul podio, però, e si limitò ad alzarsi in piedi, appoggiandosi al suo bastone. Era sempre stato un buon oratore, e tale era rimasto nonostante il trascorrere degli anni. 

«Da ragazzini, prima della Seconda guerra mondiale, io e Butch frequentavamo una scuola di una sola aula. Siamo cresciuti in un paesino che aveva una sola strada sterrata, senza semafori. Riparavamo e riassemblavno automobili, praticando tutti gli sport, prima come atleti e poi come allenatori. Da adulti abbiamo preso parte alla vita politica della nostra cittadina, e ci siamo occupati della manutenzione della discarica: due lavori molto simili, adesso che mi ci fate pensare. Andavamo a caccia e a pesca, spegnevamo gli incendi durante l’estate e sgombravamo le strade con lo spazzaneve d’inverno, abbattendo anche diverse cassette della posta. Lo conoscevo già quando tutti ancora ignoravano il suo nome – o il mio-, oltre un raggio di trenta chilometri. In questi ultimi anni sarei dovuto venirlo a trovare, ma ero troppo immerso nei miei affari. Ho pensato tra me e me: C’è tempo. È quello che pensiamo un po’ tutti, almeno credo. Però poi il tempo si riduce al lumicino. Butch era un artista di talento, ma anche una gran brava persona. E credo che sia questa la cosa più importante. Forse qualcuno non sarà d’accordo con me, e va bene comunque. La verità è che l’ho sempre protetto, e lui ha fatto lo stesso con me.»

Si interruppe per qualche istante, a capo chino. 

«Nel paesino del Maine dal quale provengo c’è un modo preciso per definire un’amicizia come la nostra: coprirsi le spalle a vicenda.»

Ed è quello che fecero, anche riguardo ai loro segreti. 

Ruth Crawford aveva un curriculum piuttosto buono, e posso dirlo perché ho verificato. Aveva pub­blicato diversi articoli, soprattutto profili di personalità pubbliche, su una decina di periodici, in larga parte locali o regionali (Yankee, Downeast, New England Life), ma anche a diffusione nazionale, incluso un pezzo sulla cittadina maledetta di Derry sul New Yorker. Quanto a Laird Carmody e a Dave LaVerdiere, la sua proposta di un articolo si basava su un appiglio a mio avviso solido. La sua tesi era emersa in modo molto chiaro in due pezzi dedicati rispettivamente a papà e allo zio Butch, ma l’autrice intendeva approfondire ulteriormente l’argomento: due uomini che provenivano dalla stessa, minuscola cittadina del Maine e che erano diventati celebri in due ambiti culturali distinti. Come se non bastasse, sia Carmody sia LaVerdiere avevano conquistato la fama dopo i quarant’anni, in una fase della vita nella quale quasi tutti gli uomini e le donne hanno rinunciato alle ambizioni della giovinezza. O, per usare le parole di papà, si sono scavati una tana e hanno cominciato ad ammobiliarla. Ruth intendeva indagare su come si fosse verificata una coinci­denza così improbabile … sempre ammesso che si trattasse di una coincidenza. 

«Dev’esserci per forza un motivo?» mi chiese papà quando ebbi finito di leggergli la lettera di Ruth Crawford. «È questo che sta cercando di insinuare? Evidentemente non ha mai sentito la storia dei due ge­melli che hanno vinto una cifra consistente alla lotteria dei rispettivi Stati, e proprio lo stesso giorno.»

«Be’, potrebbe non essere stata solo una coincidenza, però» dissi. «Sempre che non ti sia inventato questa storia su due piedi.»

Gli lasciai il tempo di commentare, ma si limitò a un sorriso che avrebbe potuto significare qualunque cosa. O forse niente. Perciò, proseguii. «Insomma, quei due gemelli potrebbero essere cresciuti in una casa dove tutti amavano scommettere. Il che renderebbe la faccenda meno improbabile, non trovi? Per non par­lare delle centinaia di biglietti della lotteria che avevano comprato, senza vincere mai.»

«Non capisco dove vuoi andare a parare, Mark» disse papà, con il solito sorrisetto sulla faccia. «Sempre che tu lo sappia.»

«Semplicemente che posso capire come mai questa donna sia tanto interessata a indagare sul fatto che tu e Dave veniate dallo stesso paesino dimenticato da Dio e che tutti e due siate sbocciati a metà della vostra vita.» Sollevai le mani vicino alla testa, come a incorniciare un titolo di giornale. «Non potrebbe essere … un segno del destino?»

Papà rifletté sulle mie parole, strofinandosi i peli bianchi sulle guance rugose. Per un attimo pensai seriamente che stesse per cambiare idea e rispondere di sì. Poi scosse il capo. «Scrivile una di quelle belle let­terine che sai preparare tu, dille che devo declinare l’offerta e che le auguro un futuro di grandi successi.»

Fu quello che feci, anche se c’era qualcosa nell’espressione di mio padre che mi era rimasta impressa. Era come se potesse dire parecchie cose sul modo in cui lui e il suo amico Butch avevano ottenuto la fama e il suc­cesso … ma preferisse non farlo. Era come se avesse un segreto da tenere per sé. 

Probabilmente Ruth Crawford era rimasta delusa dal rifiuto di mio padre di lasciarsi intervistare, ma non abbandonò comunque il suo progetto. E non lo fece neppure quando anch’io declinai la sua offerta di un’intervista, dichiarando che mio padre non avrebbe mai accettato che parlassi con lei, dopo averci rinun­ciato per primo; e, in ogni caso, io sapevo soltanto che a mio padre erano sempre piaciute le storie. Leggeva parecchio e non andava mai da nessuna parte senza un libro ficcato nella tasca posteriore dei pantaloni. Mi raccontava splendide favole della buonanotte, e ogni tanto le trascriveva su uno dei suoi quaderni. Quanto allo zio Butch, aveva dipinto un murale nella mia camera da letto: ragazzi che giocavano a palla, ragazzi che acchiappavano le lucciole, ragazzi con canne da pesca in mano. Ruth mi chiese di poterlo vedere, ovvia­mente, ma ci avevo passato una mano di vernice sopra molto tempo prima, superati gli anni dell’infanzia. Quando papà e poi lo zio Butch avevano spiccato il volo, io mi trovavo all’Università del Maine, dove seguivo i corsi avanzati di Pedagogia perché, come dice il proverbio, «chi non sa insegna, e chi non sa insegnare insegna agli insegnanti». Il successo di mio padre e del suo migliore amico era stato, le spiegai, una sorpresa per me come per chiunque, in città. C’è un altro vecchio proverbio secondo il quale da Nazareth non può ve­nire niente di buono. 

Scrissi tutte queste cose in una lettera indirizzata a Ruth Crawford, perché mi sentivo in colpa – appena appena – per non averle concesso l’intervista che mi aveva chiesto. E aggiunsi che sicuramente mio padre e lo zio Butch avevano dei sogni nel cassetto e, come la stragrande maggioranza degli uomini, se li erano tenuti per sé. Avevo sempre pensato che le storie di papà e gli allegri dipinti dello zio Butch fossero semplici hobby, un po’ come intagliare il legno o strimpellare la chitarra, fino a quando avevano cominciato a guadagnare soldi a palate. Digitai questa frase e poi aggiunsi a mano, a mo’ di poscritto: E buon per loro! 

Ci sono ventisette cittadine incorporate nella contea di Castle. Castle Rock è la più grande; Gates Falls la seconda. Harlow, il posto dove sono nato e cresciuto con i miei genitori, Laird e Sheila Carmody, non rientra neppure tra le prime dieci. Si è ingrandita parecchio dai tempi della mia infanzia, però, e ogni tanto mio padre – che aveva trascorso anche lui tutta la vita a Harlow – sosteneva di non riuscire quasi a riconoscerla. Aveva frequentato una scuola di una sola aula; io, invece, una scuola con quattro aule (due classi di età di­verse in ognuna); oggi la scuola ha otto aule, e un impianto di riscaldamento geotermico. 

Quando papà era bambino, tutte le strade della città erano sterrate a parte la Route 9, o Portland Road. Quando sono nato io, le uniche strade sterrate erano Deep Cut e Methodist Road. Oggi, tutte le strade sono asfaltate. Negli anni Sessanta c’era un solo negozio, Brownie’s, dove gli anziani si sedevano intorno a un autentico barile di sottaceti. Ora ce ne sono due o tre, ed esiste anche una specie di centro cittadino (se volete definirlo tale) su Quaker Hill Road. Abbiamo una pizzeria, due saloni di bellezza e – incredibile ma vero – un centro manicure che, a quanto pare, è diventato irrinunciabile. Niente scuole superiori, però: questo non è cambiato. I ragazzi di Harlow hanno tre opzioni: la Castle Rock High, la Gates Falls High o la Mountain View Secondary, meglio nota come Christer Academy. Siamo un branco di bifolchi, da queste parti: guidiamo i nostri pick-up, ascoltiamo la musica country, beviamo caffè corretto con il brandy e, da bravi zoticoni, votiamo repubblicano. Sono ben poche le cose che ci rendono degni di nota, fatta eccezione per due uomini nati e vissuti in questi luoghi: mio padre e il suo amico Butch LaVerdiere. Due bastardi di talento, come ha detto mio padre durante la sua breve conversazione con Ruth Crawford. 

«Tua madre e tuo padre hanno trascorso qui tutta la vita?» potrebbe chiedermi chi viene dalla città. «E dopo di loro, anche TU hai trascorso tutta la vita qui? Ma che siete, pazzi?» 

Niente affatto. 

Robert Frost ha detto che si chiama casa il luogo nel quale, quando arrivi, devono accoglierti per forza. È anche il luogo dal quale comincia e dove, se sei fortunato, finisce tutto. Butch è morto a Seattle, straniero in terra straniera. Forse a lui stava bene così, ma non posso fare a meno di chiedermi se, alla fine, non avrebbe preferito una stradina sterrata e i boschi che costeggiano un lago e che tutti chiamano Foresta delle Trenta Miglia. 

Anche se gran parte delle ricerche di Ruth Crawford- della sua indagine – era incentrata su Harlow, dove i suoi due soggetti erano nati e cresciuti, non ci sono motel da queste parti, neppure un bed and breakfast, perciò la sua base operativa era il Gateway Motel di Castle Rock. Sorprendentemente, a Harlow c’è una resi­denza per anziani, ed è là che Ruth ha intervistato un tizio di nome Alden Toothaker, che era andato a scuola con mio padre e con il suo amico. È stato Alden a dirle come aveva fatto Dave a guadagnarsi il suo sopran­nome. Portava sempre con sé un tubetto di Lucky Tiger Butch Wax nella tasca e usava spesso la brillantina per sistemarsi il ciuffo e farlo restare bello dritto sulla fronte. Si è pettinato in quel modo per tutta la vita, anche dopo che di capelli gliene restavano ben pochi. Quel ciuffo è diventato il suo tratto distintivo. Se poi abbia continuato a girare con il suo tubetto di Butch Wax in tasca pure quando è diventato famoso, lo lascio stabilire a voi. Non so neppure se quella marca di brillantina sia ancora in produzione. 

«Alle elementari e alle medie stavano sempre insieme» le ha detto Alden. «Erano solo due ragazzini che adoravano andare a pesca o a caccia con i genitori. Sono cresciuti in famiglie dove si lavorava sodo, e non si aspettavano niente di diverso per sé stessi. Può darsi che qualcuno della mia età le dica di aver capito fin da subito che erano destinati a grandi cose, ma io no. Erano ragazzi normalissimi fino a quando, un giorno, non lo sono stati più.» 

Laird e Butch frequentarono la Gates Falls High. Erano stati inseriti nei corsi che, a quei tempi, si chiama­vano «di cultura generale», destinati ai ragazzi che non avevano in programma di andare al college. Nessuno saltò fuori a dire che non erano abbastanza brillanti per iscriversi all’università, la cosa era data per scontata. Tra i corsi che frequentavano ce n’erano due che si chiamavano Matematica per uso quotidiano e Inglese commerciale, e i relativi manuali dedicavano diverse pagine a illustrare come piegare correttamente una let­tera, con tanto di diagrammi. Trascorrevano parecchio tempo nel laboratorio di falegnameria e nell’officina meccanica. Giocavano entrambi a football e a pallacanestro, anche se mio padre scaldava regolarmente la 

Informazioni sulla velocità di lettura panchina. Conclusero il loro percorso scolastico con la media del sette e si diplomarono lo stesso giorno, 1’8 giugno 1951. 

Dave LaVerdiere iniziò a lavorare con il padre, un idraulico. Laird Carmody e suo padre riparavano automobili nella fattoria di famiglia e le rivendevano al PeeWee’s Car Mart di Gates Falls. Avevano anche una bancarella di ortaggi in Portland Road, che fruttava una discreta sommetta. 

Lo zio Butch e suo padre non andavano molto d’accordo e alla fine Dave si mise in proprio, sistemando scarichi, rifacendo impianti idraulici e ogni tanto scavando pozzi a Gates e a Castle Rock. (Suo padre aveva tutti gli abitanti di Harlow come clienti, e non aveva la minima intenzione di condividerli.) Nel 19 54 i due amici fondarono la L&D Haulage, che si occupava principalmente di trasportare la merda dei villeggianti fino alla discarica. Nel 19 5 5 comprarono la discarica, e l’amministrazione cittadina fu ben lieta di sbarazzar­sene. La ripulirono con una serie di incendi controllati, istituirono un grossolano programma di riciclaggio e la liberarono dai parassiti e dagli animali infestanti. L’amministrazione comunale pagava loro uno stipen­dio, che andava ad aggiungersi a quanto guadagnavano con il loro lavoro. Gli scarti di metallo, soprattutto i fili di rame, assicuravano ulteriori entrate. La gente in città li chiamava i Gemelli della Mondezza, ma Alden Toothaker (come del resto altri anziani con la memoria ancora integra) rassicurò Ruth Crawford: era un so­prannome scherzoso e, come tale, fu accettato di buon grado dai diretti interessati. 

La discarica era grande forse due ettari, e circondata da un’alta palizzata. Dave cominciò a decorarla con una serie di murales che raffiguravano scene di vita cittadina, aggiungendone uno ogni anno. Anche se quella palizzata è sparita da un pezzo (e la discarica è stata interrata), restano le foto. Quei murales ricordano parecchio le opere successive di Dave. C’erano donne che lavoravano all’uncinetto nel bel mezzo di una par­tita di baseball, partite di baseball disseminate di caricature di abitanti di Harlow morti da un pezzo, scene di semina primaverile e raccolto autunnale. Non c’era aspetto della vita di una piccola cittadina che non fosse stato rappresentato, ma zio Butch ci aveva aggiunto anche Cristo seguito dagli apostoli (l’ultimo della fila era Giuda, con un ghigno feroce sulla faccia). Non c’era niente di straordinario in quei murales, ma erano impu­denti e pieni di allegria. Erano, per così dire, promettenti. 

Poco dopo la morte di zio Butch, un suo ritratto di Elvis Presley e Marilyn Monroe che passeggiavano per mano sul sentiero coperto di segatura che attraversava un piccolo luna park di provincia fu venduto per tre milioni di dollari. Era mille volte più bello dei murales che lo zio Butch aveva dipinto tutto intorno alla discarica, ma sarebbe stato perfetto accanto a quei dipinti perché era caratterizzato dallo stesso, stravagante umorismo, minato da una vena sotterranea di disperazione e – forse – di disprezzo. I murales di Dave alla discarica erano stati il primo germoglio di un talento che sarebbe sbocciato in tutta la sua pienezza con Elvis & Marilyn. 

Lo zio Butch non si sposò mai, papà invece sì. Al liceo aveva una fidanzatina di nome Sheila Wise che, dopo il diploma, partì per il Vermont State Teaching College. Quando tornò per fare la maestra alla Harlow Elementary, mio padre scoprì con grande gioia che era ancora single. Dopo una corte serrata, la riconquistò. 

Le nozze furono celebrate nell’agosto del 1957, e Dave LaVerdiere fece da testimone allo sposo. Io nacqui l’anno successivo, e il miglior amico di mio padre diventò a tutti gli effetti zio Butch. 

Lessi una recensione del primo libro di papà, Il temporale, nella quale il critico affermava: «Non accade granché nel primo centinaio di pagine di questo romanzo carico di suspense, ma Carmody riesce comunque a coinvolgere il lettore con un’elegante partitura per violino». 

Mi sembrava un modo brillante di spiegare il successo di quel libro, ma Ruth Crawford non aveva molte partiture per violino a cui attingere; il quadro che le era stato delineato da Alden e dagli altri abitanti di Har­low mostrava due uomini per bene, rispettati e fondamentalmente onesti. Erano provinciali, e vivevano da provinciali. Uno dei due era sposato e l’altro lo si sarebbe potuto definire uno «scapolone impenitente», con una vita privata circondata da un vago alone di scandalo. 

La sorella minore di Dave, Vicky, aveva accettato di essere intervistata. Raccontò a Ruth che ogni tanto Dave andava «in città» – riferendosi a Lewiston – per farsi una birra nei locali che affollavano Lisbon Street. «Gli piaceva soprattutto l’Holly» disse, riferendosi all’Holiday Lounge (che ha chiuso da un pezzo). «In parti­colare quando si esibiva Little Jonna Jaye. Cavolo, che cotta si era preso per quella ragazza! Non è mai riuscito a portarsela a casa – non ha avuto questa fortuna! -, ma ciò non significa che tornasse a Harlow sempre da solo!»

Come mi disse Ruth in seguito, a quel punto Vicky rimase in silenzio per qualche istante, prima di aggiungere: «So cosa potrebbe pensare, signorina Crawford; è un’idea che di questi tempi viene in mente a tutti, quando un uomo trascorre tutta la vita senza una donna accanto, però non è così che stanno le cose. Mio fratello sarà anche diventato un artista famoso, ma un fatto è certo: non era gay».

I due uomini erano molto apprezzati: non c’era una sola persona che sostenesse il contrario. E si compor­tavano da bravi vicini di casa. Quando Philly Loubird ebbe un infarto a metà del raccolto di fieno, e con un temporale in arrivo, papà lo portò all’ospedale di Castle Rock mentre Butch, con un paio di dipendenti della discarica, completava il lavoro prima che cadesse la prima goccia di pioggia. Mio padre e mio zio spegnevano gli incendi insieme ai vigili del fuoco. Papà accompagnava mamma a raccogliere gli oboli per quello che allora si chiamava Fondo per i poveri, se non aveva troppe auto da riparare o troppo lavoro alla discarica. Allenavano entrambi le squadre giovanili di Harlow, e in diversi sport. Cucinavano fianco a fianco in prima­vera durante la cena dei pompieri a base di porchetta, e al barbecue di pollo che segnava la fine dell’estate. 

Due provinciali, che vivevano da provinciali. 

E niente partiture di violino. 

Finché a suonare fu un’orchestra intera. 

Sapevo molte di queste cose. E altre ne scoprii da Ruth Crawford in persona al Korner Koffee Kup, di fronte al Gateway Motel e a un isolato di distanza dall’ufficio postale. Era lì che papà riceveva la posta, e di solito c’era una bella quantità di lettere da recuperare. Mi fermavo sempre al Koffee Kup, dopo aver ritirato la corrispondenza. Il caffè è decente, nulla di più, ma i muffin ai mirtilli? Non ne assaggerete mai di migliori. 

Stavo dando un’occhiata alla posta, per separare gli opuscoli pubblicitari dalle lettere vere e proprie, quando qualcuno disse: «Posso sedermi?»

Era Ruth Crawford, magra e tonica con i suoi pantaloni bianchi, il top rosa e la mascherina intonata: era il primo anno di Covid. Stava già scivolando sul sedile opposto del séparé, e scoppiai a ridere. «Non molla mai l’osso, eh?»

«Una bella ragazza non può cedere alla timidezza, se punta al Premio Nobel» rispose, e si tolse la masche­rina. «Com’è il caffè in questo locale?»

«Non è malaccio. Dovrebbe già saperlo, visto che si è sistemata nell’albergo qui di fronte. I muffin sono i migliori, comunque. Ma non le concederò lo stesso quell’intervista. Spiacente, signorina Crawford, ma pro­prio non posso.»

«D’accordo, niente intervista. Tutto quello che diremo resterà tra noi due, va bene?»

«Quindi non potrà utilizzarlo, giusto?»

«Esatto.»

Arrivò la cameriera, Suzie McDonald. Le chiesi se frequentasse sempre la scuola serale. Sorrise dietro la mascherina e rispose di sì. Io e Ruth ordinammo caffè e muffin. 

«Conosce proprio tutti in queste tre cittadine, eh?» chiese Ruth appena Suzie si fu allontanata. 

«Niente affatto. Un tempo conoscevo molte più persone, quando ero ancora il sovrintendente scolastico. Resta tutto fra noi due, giusto?»

«Certamente.»

«Suzie ha avuto una bambina a diciassette anni, e i genitori l’hanno sbattuta fuori di casa. Sono dei fanatici, membri della Chiesa di Cristo Redentore. È andata a vivere con la zia, a Gates. Da allora ha finito il liceo e frequenta i corsi serali alla Succursale della contea, che è associata al Bates College. Vuole diventare veterinaria. Sono convinto che ci riuscirà, e la bambina sta venendo su che è una meraviglia. E lei? Come le vanno le cose? È riuscita a raccogliere informazioni su papà e sullo zio Butch?»

Ruth sorrise. «Ho saputo che suo padre andava in giro con le auto truccate, prima di sposare sua madre … a proposito, le faccio le mie condoglianze.»

«Grazie» risposi, anche se eravamo nell’estate del 2021 e mia madre era morta già da cinque anni. 

«Suo padre si è cappottato con la Dodge di un vecchio contadino e gli è stata sospesa la patente per un anno: lo sapeva?»

Lo ignoravo, e glielo dissi. 

«Ho scoperto che a Dave LaVerdiere piacevano i bar di Lewiston, e che si era preso una cotta per una cantante del posto che si faceva chiamare Little Jonna Jaye. Ho scoperto anche che ha smesso di votare re­pubblicano dopo il Watergate, a differenza di suo padre.»

«Papà voterà repubblicano fino al giorno della sua morte. Ma … » Mi protesi in avanti. «Resta sempre fra noi due?»

«Certamente!» mi rispose sorridendo, tuttavia gli occhi le brillavano per la curiosità. 

Abbassai la voce fin quasi a un sussurro. «Non ha votato per Trump, la seconda volta. Non ce l’ha fatta a votare per Biden, ma ne aveva abbastanza del vecchio Donald. Questa notizia, però, dovrà portarsela nella tomba, mi raccomando.»

«Le giuro che sarà così. Ho scoperto che Dave ha vinto la gara delle torte della fiera cittadina dal 1960 al 1966, quando si è ritirato dalla competizione. E ho scoperto che suo padre si è seduto sullo sgabello “di tortura” durante la rievocazione storica di Harlow fino al 1972. Ci sono delle foto esilaranti che lo ritraggono con uno di quei costumi da bagno di una volta e la bombetta in testa … impermeabile, devo dedurre.»

«Può immaginare il mio imbarazzo» commentai. «A scuola mi sfottevano tutti.»

«Ho saputo che, quando si è trasferito a ovest, Dave ha caricato ciò che pensava gli potesse servire nelle bisacce laterali della sua Harley-Davidson, ed è partito. Suo padre e sua madre hanno venduto tutto il resto che possedeva e gli hanno spedito i soldi. Suo padre si è occupato anche di vendere la casa.»

«Per una cifra ragguardevole» aggiunsi. «Ed è stato un bene. Ormai lo zio Butch dipingeva a tempo pieno, e quei soldi gli sono serviti fino a quando ha cominciato a guadagnare con i suoi quadri.»

«A quel punto anche suo padre scriveva a tempo pieno.»

«Sì, ma gestiva ancora la discarica. E ha continuato a farlo finché l’ha rivenduta al comune, nei primi anni Novanta. È stato allora che l’hanno interrata.»

«Aveva comprato anche il PeeWee’s Car Mart e l’ha rivenduto, cedendo i proventi all’amministrazione cittadina.»

«Davvero? Non l’ho mai saputo» dissi, anche se ero sicuro che mia madre ne fosse al corrente. 

«Certo che l’ha fatto: perché non avrebbe dovuto? I soldi non gli servivano, giusto? Ormai la scrittura era diventata il suo mestiere, e tutto quello che faceva in città era semplicemente un hobby.»

«Le opere buone» obiettai «non sono mai un hobby.»

«Gliel’ha insegnato suo padre?»

«No, mia madre.»

«E sua madre cosa pensava del successo improvviso di suo padre? Per non parlare di quello di suo zio Butch?»

Riflettei sulla domanda mentre Suzie ci serviva i muffin e il caffè. «Non voglio affrontare quest’argo­mento, signorina Crawford.»

«Chiamami Ruth.»

«Diamoci pure del tu, ma resta il fatto che non voglio affrontare quest’argomento.»

Ruth si mise a imburrare il suo muffin. Mi stava fissando con un’espressione acuta e perplessa al tempo stesso – non saprei come definirla altrimenti-, che mi metteva a disagio. 

«Con quello che ho scoperto posso scrivere un buon articolo e venderlo allo Yankee» disse. «Diecimila parole, piene di colore locale e di aneddoti divertenti. Le classiche stronzate sul Maine che piacciono tanto alla gente, magari con un po’ di battute in dialetto locale. Ho delle foto dei murales di Dave LaVerdiere alla vecchia discarica. Ho delle foto di tuo padre – il famoso scrittore – con un costume da bagno degli anni Venti, mentre i suoi compaesani cercano di buttarlo in una tinozza piena d’acqua.»

«Due dollari ogni tre tiri, alla grande Fiera degli sgabelli. I ricavi erano destinati alle varie associazioni benefiche. Ogni volta che papà finiva in acqua partiva un applauso.»

«Ho delle foto di tuo padre e tuo zio che servono il pollo ai turisti e ai villeggianti: tutti e due indossano un grembiule e un cappello con la scritta: POTETE BACIARE IL cuoco.»

«Molte donne lo facevano sul serio.»

«Ho delle storie di pesca e di caccia, e diverse buone azioni da raccontare – per esempio, quando hanno raccolto il fieno per quell’uomo che aveva avuto un infarto. Ho la storia di Laird e della sua scorribanda in auto, con il ritiro della patente. Ho tutte queste informazioni, quindi non ho niente. Ossia, niente di sostan­ziale. Alla gente piace raccontare aneddoti su di loro – ho conosciuto Laird Carmody quando … ho conosciuto Butchie LaVerdiere quando… , ma non ho niente che spieghi cosa sono diventati. Capisci ciò che intendo?»

Le risposi che sì, capivo. 

«E tu qualcosa devi sapere, Mark. Che accidenti è successo? Non vuoi dirmelo?»

«Non c’è niente da dire» risposi. Stavo mentendo, e credo proprio che Ruth lo sapesse. 

Ricordo la telefonata che ricevetti nell’autunno del 1978. La custode notturna del dormitorio (esiste­vano ancora figure simili, a quei tempi) salì sbuffando le scale fino al terzo piano della Roberts Hall e mi disse che c’era mia madre al telefono, e che sembrava molto agitata. Scesi di corsa nel piccolo appartamento della signora Hathaway, preoccupatissimo. 

«Mamma? Va tutto bene?»

«Sì. Anzi, no. Non lo so. È successo qualcosa a tuo padre mentre erano a caccia nella Foresta delle Trenta Miglia.» E poi, quasi a mo’ di ripensamento, aggiunse: «E anche a Butch». 

Sentii un vuoto allo stomaco e i testicoli raggrinzirsi. «C’è stato un incidente? Si sono fatti male? Qualcuno è … » Non riuscii a finire la frase: avevo paura che, chiedendo se qualcuno era morto, potessi farlo succedere davvero. 

«Stanno bene. Almeno, fisicamente. Ma è successo qualcosa. Tuo padre ha l’aria di chi ha visto un fanta­sma. E Butch … pure. Mi hanno detto di essersi persi, ma è una balla colossale. Quei due conoscono la Foresta delle Trenta Miglia come il palmo della loro mano. Vorrei che tornassi a casa, Mark. Non subito, magari nel fine settimana. Forse con te si confiderà.»

Però quando gli chiesi che cosa fosse accaduto, papà insisté a dire che si erano persi, che per fortuna avevano ritrovato la strada fino al Jilasi Creek (una versione storpiata e americanizzata della formula di sa­luto in uso tra gli indiani Micmac), ed erano riemersi dalla foresta dietro il cimitero di Harlow, decisamente sollevati. 

Non credetti a quella storia piena di stronzate più di quanto ci avesse creduto mamma. Tornai al college, e prima delle vacanze di Natale mi si affacciò alla mente un’idea terribile: che uno di loro due avesse sparato a un altro cacciatore – una cosa che accade diverse volte l’anno, durante la stagione di caccia- e lo avesse uc­ciso, per poi seppellirlo nei boschi. 

La vigilia di Natale, dopo che mamma era andata a letto, trovai finalmente il coraggio di chiedergli lumi. Eravamo seduti in salotto, con l’albero di Natale di fronte. Papà mi sembrò stupito … poi scoppiò a ridere. «Santo cielo, no! Se fosse successa una cosa del genere, l’avremmo riferita alla polizia e ci saremmo sorbiti l’amaro calice che ci spettava. Ci siamo persi, tutto qui. Succede anche ai migliori, ragazzino.»

Mi tornarono in mente le parole di mia madre, e ci mancò poco che le pronunciassi a voce alta: è una balla colossale. 

Mio padre aveva un senso dell’umorismo pungente, e ne diede la dimostrazione migliore quando il suo commercialista venne a trovarlo da New York – più o meno nel periodo in cui era uscito l’ultimo romanzo di papà- e gli disse che aveva guadagnato, al netto delle tasse, un po’ più di dieci milioni di dollari. Non una cifra daJ.K. Rowling (o almeno daJames Patterson), però comunque una somma considerevole. Papà ci pensò su un attimo, poi disse: «A quanto pare, i libri non servono solo ad ammobiliare una stanza». 

Il commercialista era perplesso, ma io colsi l’allusione e scoppiai a ridere. 

«Non ti lascerò certo povero in canna, Markey» aggiunse papà. 

Doveva aver notato la mia smorfia, o forse si era reso conto delle implicazioni di quanto aveva detto. Si allungò per darmi un colpetto su una mano, come faceva sempre quando ero bambino e qualcosa mi met­teva in agitazione. 

Non ero più un bambino, ma ero solo. Nel 1988 mi ero sposato con Susan Wiggins, che lavorava come av­vocato nell’ufficio del procuratore di contea. Aveva detto di volere dei figli, tuttavia continuava a rimandare. Poco prima del nostro dodicesimo anniversario di matrimonio (occasione per la quale le avevo comprato una collana di perle) mi disse che mi lasciava per un altro uomo. Ci sarebbe molto da aggiungere, come immagino valga per tutte le storie, ma non c’è altro che vi sia necessario sapere, perché questa non è la mia storia, o non proprio. Comunque, quando mio padre disse che non mi avrebbe lasciato povero in canna, l’interrogativo che mi venne in mente – che venne in mente a tutti e due, credo – fu a chi avrei lasciato io quei dieci milioni, o ciò che ne fosse rimasto, una volta giunta la mia ora. 

Probabilmente al Distretto scolastico numero 19 del Maine. Le scuole hanno sempre bisogno di soldi. 

«Qualcosa devi saperlo» mi disse Ruth quel giorno, al Koffee Kup. «Devi, sì. Resterà comunque tra noi due, non dimenticarlo.»

«Che resti tra noi due o no, non so niente» ribadii. L’unica cosa di cui ero certo era che qualcosa era successo a papà e allo zio Butch nel novembre del 1978, durante la loro battuta di caccia annuale, dopodiché papà era diventato un autore di grossi bestseller, quelli che i critici amano chiamare «mattoni», e Dave LaVer­diere aveva ottenuto la celebrità prima come illustratore e poi come pittore «capace di combinare il surreali­smo di Frida Kahlo con il romanticismo americano di Norman Rockwell» (ArtReview). 

«Forse si sono ritrovati in quel famoso crocevia di strade» disse Ruth. «Lo stesso di Robert Johnson. E hanno stretto un patto con il diavolo.»

Scoppiai a ridere, ma mentirei se negassi di aver avuto la stessa idea, specie nelle notti tempestose d’estate, quando il susseguirsi dei tuoni mi teneva sveglio. «Se è così, la durata del contratto dev’essere stata superiore a sette anni. Il primo libro di papà è stato pubblicato nel 1980, lo stesso anno in cui il ritratto di John Lennon realizzato da Butch è finito sulla copertina di Time.»

«Il successo di LaVerdiere è durato quasi quarant’anni» commentò Ruth «e tuo padre ha smesso di scri­vere, ma va ancora parecchio forte.»

«Mi sa tanto che “forte” è una parola grossa» dissi, pensando alle lenzuola bagnate di urina che avevo cambiato quella mattina stessa, prima di partire alla volta di Castle Rock. «Comunque se la cava, in effetti. E tu? Quanto tempo hai ancora intenzione di trascorrere nel nostro paradiso in mezzo ai boschi, frugando nell’immondizia a caccia di informazioni su Carmody e LaVerdiere?»

«Un modo davvero pessimo di descrivere il mio lavoro.»

«Scusa. Volevo fare una battuta, ma non mi è uscita bene.»

Aveva finito il suo muffin (vi ho già detto che erano deliziosi) e stava raccogliendo le ultime briciole con il dito indice. « Un paio di giorni. Voglio tornare alla casa di riposo di Harlow, e magari farmi un’altra chiacchie­rata con la sorella di LaVerdiere, se è disposta a ricevermi. Tornerò a casa con un articolo facile da vendere, ma non certo con quello che avrei voluto scrivere.»

«Forse ciò che cercavi non c’è modo di trovarlo. E forse la creatività è destinata a rimanere un mistero.»

Ruth arricciò il naso e disse: «La metafisica risparmiatela pure. Posso pagare io il conto?»

«No.)) 

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