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Il giorno dell’omicidio
3 aprile 1999
Erano le sette del mattino. Stava correndo, da sola, lungo la Route 21, in mezzo a un paesaggio verdeggiante. Con la musica nelle orecchie, procedeva a ritmo sostenuto. Le sue falcate erano veloci, il respiro controllato; da lì a due settimane avrebbe preso parte alla maratona di Boston. Era pronta.
Aveva l’impressione che fosse una giornata perfetta: il sole nascente irradiava i campi di fiori selvatici, dietro i quali svettava l’immensa foresta di White Mountain.
Poco dopo arrivò alla stazione di servizio di Lewis Jacob, a sette chilometri esatti da casa sua. All’inizio non aveva pensato di spingersi oltre, ma decise di fare un altro piccolo sforzo. Superò la stazione di servizio e proseguì fino all’incrocio di Grey Beach. Lì svoltò sulla strada sterrata che i villeggianti prendevano d’assalto nelle giornate troppo calde. Portava a un parcheggio da cui partiva un sentiero pedonale che si addentrava nella foresta di White Mountain e sbucava su una grande spiaggia di ciottoli sulla riva del lago Skotam. Mentre attraversava il parcheggio di Grey Beach, vide una decappottabile blu con la targa del Massachusetts, ma non vi prestò attenzione. Imboccò il viottolo e si diresse verso la spiaggia.
Aveva quasi raggiunto il limitare degli alberi quando, sul greto, scorse una sagoma che la fece fermare di botto. Le ci vollero alcuni secondi per rendersi conto di quello che stava succedendo. Rimase paralizzata dal terrore. Non l’aveva vista. Doveva assolutamente evitare di far rumore, di rivelare la sua presenza: se l’avesse vista, avrebbe di certo aggredito anche lei. Si nascose dietro a un tronco.
L’adrenalina le diede la forza di indietreggiare furtivamente lungo il sentiero, e poi, quando ritenne d’essere fuori pericolo, scappò a gambe levate. Corse come non aveva mai corso prima. Era uscita di proposito senza il cellulare. Quanto se ne pentiva adesso!
Raggiunse la Route 21. Sperava che passasse una macchina, e invece niente. Si sentiva sola al mondo. Allora fece una corsa fino alla stazione di servizio di Lewis Jacob. Lì avrebbe trovato aiuto. Quando finalmente ci arrivò, senza fiato, la porta era chiusa. Ma vedendo il benzinaio all’interno, batté sui vetri finché non le aprì. Poi si buttò su di lui urlando:
“Chiami la polizia! Chiami la polizia!”
ESTRATTO DEL RAPPORTO DI POLIZIA
AUDIZIONE DI PETER PHILIPPS
[Peter Philipps è da circa quindici anni un agente della polizia di Mount Pleasant. È stato il primo poliziotto ad arrivare sul posto. La sua testimonianza è stata raccolta a Mount Pleasant il 3 aprile 1999.]
Quando ho sentito la chiamata della centrale sui fatti che si stavano verificando a Grey Beach, all’inizio ho pensato di aver capito male. Ho chiesto all’operatore di ripetere. Mi trovavo nella zona di Stove Farm, che non è molto lontana da Grey Beach.
È andato direttamente lì?
No, mi sono fermato prima alla stazione di servizio sulla Route 21, da dove la testimone aveva chiamato il pronto intervento. Data la situazione, ho ritenuto importante parlare con lei prima di intervenire. Per sapere cosa dovevo aspettarmi di trovare sulla spiaggia. La testimone in questione era una giovane donna terrorizzata. Mi ha raccontato quello che era appena successo. Nei miei quindici anni in polizia non avevo mai dovuto affrontare una situazione del genere.
E dopo?
Mi sono immediatamente recato sul luogo.
Ci è andato da solo?
Non avevo scelta. Non c’era un minuto da perdere. Dovevo ritrovarlo prima che scappasse.
Cosa è successo dopo?
Ho guidato a gran velocità dalla stazione di servizio fino al parcheggio di Grey Beach. Una volta lì, ho notato una decappottabile blu con la targa del Massachusetts. Poi ho afferrato il fucile e ho preso il sentiero per il lago.
E poi…?
Quando sono arrivato di corsa sulla spiaggia, era ancora lì, stava infierendo su quella povera ragazza. Ho urlato per farlo fermare, e lui ha alzato la testa e mi ha fissato. Ha iniziato a venire lentamente verso di me. Ho capito subito che si trattava di lui o di me. In quindici anni di servizio non avevo mai sparato un colpo. Fino a stamattina.
Prima parte. Le conseguenze del successo
1.
Dopo il caso Harry Quebert
Montréal, Québec
5 aprile 2010
Una neve primaverile cadeva sugli immensi hangar situati lungo la sponda del San Lorenzo, che ospitavano gli studi cinematografici. Era lì che stavano girando, da alcuni mesi, l’adattamento del mio primo romanzo, G come Goldstein.
Il caso volle che l’inizio delle riprese avesse coinciso con l’uscita di La verità sul caso Harry Quebert. Spinto dal mio trionfo in libreria, il film stava già suscitando l’entusiasmo generale e le prime immagini avevano fatto sensazione a Hollywood.
Mentre fuori un vento freddo faceva turbinare i fiocchi, all’interno degli studi sembrava d’essere in piena estate: nello scenario sorprendentemente realistico di una strada trafficata, gli attori e le comparse, illuminati da potenti riflettori, sembravano muoversi sotto un sole cocente. Era una delle mie scene preferite del libro: nel dehors di un caffè, in mezzo a una folla di passanti, i due protagonisti, Mark e Alicia, si ritrovano dopo essersi persi di vista per anni. Non hanno bisogno di parole, i loro sguardi bastano a colmare il tempo perduto lontani, l’uno dall’altro.
Seduto dietro gli schermi di controllo, seguivo la ripresa.
“Stop!” urlò all’improvviso il regista, interrompendo quel momento di grazia. “Buona questa.” Accanto a lui, il primo assistente riecheggiò l’ingiunzione via radio: “Buona questa. Per oggi abbiamo finito.”
Di colpo, il set si trasformò in un formicaio: i tecnici iniziarono a risistemare le attrezzature, mentre gli attori tornarono nei camerini sotto gli sguardi delusi delle comparse, che avrebbero voluto scambiare due chiacchiere, chiedere una foto o un autografo.
Quanto a me, gironzolai sul set. La strada, i marciapiedi, i lampioni, le vetrine: sembrava tutto così reale. Entrai nel caffè, profondamente ammirato per la cura riservata ai dettagli. Avevo la sensazione di camminare nel mio romanzo. Mi infilai dietro il banco traboccante di panini e dolci: qualunque cosa si potesse vedere sullo schermo doveva apparire vera.
La mia contemplazione non durò a lungo. Una voce mi strappò ai miei pensieri:
“Ha cambiato mestiere, Goldman?”
Era Roy Barnaski, il lunatico direttore della Schmid&Hanson, la casa editrice che mi pubblicava. Era sbarcato da New York quella mattina, senza preavviso.
“Un caffè, Roy?” proposi, prendendo una tazza vuota.
“Mi dia piuttosto uno di quei panini, sto morendo di fame.”
Non avevo idea se i prodotti esposti fossero commestibili ma, senza preoccuparmene, allungai a Roy un panino al tacchino e formaggio.
“Lo sa, Goldman,” mi disse, dopo aver addentato con voracità le spesse fette, “questo film farà furore! Abbiamo anche previsto un’edizione speciale di G come Goldstein, sarà fantastica!”
Quelli che hanno letto La verità sul caso Harry Quebert sanno tutto dei miei rapporti ambivalenti con Roy Barnaski. Quanto agli altri, vi basti sapere che la sua intesa con i propri autori variava in funzione dei soldi che gli procuravano. Nel mio caso, mentre due anni prima mi aveva messo alla gogna per non aver consegnato in tempo il mio romanzo, ora le vendite record di La verità sul caso Harry Quebert mi conferivano un posto d’onore nel suo pantheon delle galline dalle uova d’oro.
“Immagino che stia toccando il cielo con un dito, Goldman,” continuò Barnaski, che non sembrava rendersi conto che mi stava disturbando. “Prima il successo del libro, e adesso questo film. Si ricorda, due anni fa mi sono fatto in quattro perché fosse Cassandra Pollock a interpretare la parte di Alicia, e lei mi ha subissato di mille recriminazioni. Ebbene, non ne valeva la pena?! Sono tutti d’accordo che è fenomenale!”
“Come potrei dimenticarmene, Roy? Ha fatto credere a tutti che avevamo una relazione.”
“E guardi il risultato! Le mie intuizioni sono sempre buone, ottime, Goldman! Ecco perché io sono il grande capo! Del resto, se sono venuto qui, è per parlarle di una cosa molto, molto importante.”
Quando l’avevo visto piombare all’improvviso sul set, avevo capito subito che doveva esserci una buona ragione se era venuto a Montréal.
“Di che si tratta?” chiesi.
“È una notizia che le farà piacere, Goldman. Volevo annunciargliela di persona.”
Barnaski stava usando guanti di velluto: non era un buon segno.
“Vada dritto al punto, Roy.”
“Stiamo per chiudere un contratto per l’adattamento di La verità sul caso Harry Quebert con la MGM!” si lanciò. “Sarà una cosa enorme! Tanto che vorrebbero firmare un accordo di massima in tempi molto rapidi.”
“Non credo di volerne fare un film,” risposi in tono secco.
“Aspetti di vedere il contratto, Goldman. Solo alla firma, ci sono due milioni di dollari per lei! Scarabocchia il suo nome in fondo a una pagina, e puf! Si ritrova due milioni di dollari sul conto in banca. Senza parlare della compartecipazione agli utili del film e tutto il resto!”
Non avevo nessuna voglia di mettermi a discutere.
“Ne parli con il mio agente o con il mio avvocato,” suggerii per tagliare corto, cosa che irritò terribilmente Barnaski.
“Se fossi stato interessato all’opinione del suo merdoso agente, Goldman, non sarei venuto fin qui!”
“Non poteva aspettare fino al mio rientro a New York?”
“Il suo rientro a New York? Lei è peggio del vento, Goldman: non riesce a star fermo un istante!”
“Harry non vorrebbe un film,” dissi accigliato.
“Harry?” ribatté lui in tono strozzato. “Harry Quebert?”
“Sì, Harry Quebert. La discussione è chiusa: non voglio fare un film perché non voglio rituffarmi in quella vicenda. Voglio dimenticarla. Voglio voltare pagina.”
“Ma senti come piagnucola!” si arrabbiò Barnaski, che non sopportava di essere contraddetto. “Gli serviamo un mestolo di caviale, ma il piccolo Goldman fa i capricci e non vuole aprire la bocca!”
Avevo ascoltato abbastanza. Barnaski si pentì di essere stato brusco e cercò di rimediare assumendo una voce melliflua:
“Lasci che le illustri il progetto, mio piccolo Marcus. Vedrà che cambierà idea.”
“Per ora, credo che cambierò aria.”
“Venga a cena con me, stasera! Ho prenotato in un ristorante della vecchia Montréal. Facciamo alle otto?”
“Stasera ho un appuntamento, Roy. Ne riparliamo a New York.”
Lo piantai lì, col suo surrogato di panino in mano, e abbandonai il set, raggiungendo l’entrata principale dello studio. Subito prima delle grandi porte a vento c’era un chiosco bar. Tutti i giorni, dopo le riprese, mi fermavo lì per un caffè. C’era sempre la stessa cameriera, che mi porse un bicchiere di carta pieno di caffè ancor prima che aprissi bocca. Sorrisi per ringraziarla e lei ricambiò il sorriso. Capita spesso che le persone mi sorridano. Ma non so mai se sorridono a me, il fratello umano che hanno visto, o allo scrittore che hanno letto. La giovane donna, per l’appunto, tirò fuori da sotto il banco una copia di La verità sul caso Harry Quebert.
“L’ho finito ieri sera,” mi disse. “Ah, che libro! È impossibile staccarsene! Me lo firmerebbe?”
“Con piacere. Come si chiama?”
“Deborah.”
Deborah, certo. Me l’aveva già detto una decina di volte.
Estrassi una penna dalla tasca e scrissi, sul risguardo, la frase di rito che usavo per le dediche:
Per Deborah,
che ora conosce tutta la verità sul caso Harry Quebert.
Marcus Goldman
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